↑ Informazione Pensiero Propaganda Azione ↑

martedì 11 dicembre 2012

21 dicembre: la fine del mondo siete voi!

Secondo una diceria infondata, diventata moda commerciale grazie a film e social network, il famelico (quanto fittizio) calendario dei Maya sancirebbe la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. Non si capisce perché, non si sa come, ma il momento pare incontestabile. Psicosi di massa: situazioni da scomodare Freud, se questo non allontanasse troppo il discorso. Analisi psicoanalitiche e chiacchiere da videoconsumatori a parte, l’occasione come al solito risulta propizia per tentare un approfondimento intorno al concetto, estrapolando quanto sta alla radice di una fobia ingiustificata fino a un certo punto: vediamo perché.

Nelle società pre-civili, il tempo veniva scandito dagli eventi naturali: si trattava quindi di una visione circolare della realtà, che portava stabilità e rigenerazione. Basti pensare alla concezione della morte, vista in veste di “ritorno alla terra” in alcune civiltà europee, oppure come “reincarnazione” per quel che riguarda quelle orientali. Ma la storia, come una molla circolare e ripiegata in tensione su sé stessa, con l’arrivo della civiltà ha iniziato a distendersi e ad allungarsi, assumendo nel tempo una posizione sempre più vicina a quella rettilinea.

Presso i Romani, la circolarità del tempo ebbe un primo sussulto: si iniziarono a contare gli anni ab urbe condita, anche se i calendari rimasero in sintonia con un mondo ancora prevalentemente naturale e contadino  durante la Repubblica a fasi lunari e in seguito alla riforma giuliana a fasi solari. Il passo più lungo della gamba tuttavia lo ha fatto il cristianesimo: la dottrina della linearità per eccellenza. Nella nascita di Cristo, come in tutte le religioni rivelate, c’è quello spartiacque impenetrabile che divide categoricamente le “due storie”. E da qui dritti senza passare più dal via!

Un’altra tappa importante la segnano le Rivoluzioni industriali, che hanno spianato la strada alla trasformazione della società rurale e artigianale in società meccanica, dando vita al proletariato e alle masse urbane. Quasi contemporaneamente, nel 1789, La Rivoluzione francese partorisce quello che Nietzsche definirà “un gelido mostro”: lo Stato. E per marcare simbolicamente il cambiamento, tra le prime novità introdotte, il governo post-rivoluzionario annovera l’universalizzazione delle unità di misura (decimali) e del calendario astronomico. Il compimento della Rivoluzione si realizzerà in Europa nel Novecento, e soprattutto nel Secondo dopoguerra, con il diritto di voto incondizionato e l’affermazione della democrazia. Quest’ultima forma di governo può essere considerata il “non plus ultra” per la distensione della molla-storia. La democrazia ritiene sé stessa “la miglior forma di governo”: inalienabile, insostituibile, insuperabile. Per definizione, l’ultimo capitolo della storia.

All’apice dell’apice troviamo la tecnologia, germogliata in maniera esponenziale nell’ultimo decennio – TV, rete internet e telefono cellulare. Provate a mettervi in un cantone della vostra dimora, con il TG24 di sottofondo e il tablet a portata di mano, per chiedere in preghiera a un’entità superiore che il giorno seguente il clima sia mite. Persino il vostro personal computer, sulla scrivania, vi guarderebbe compassionevole mostrandovi il meteo delle settimane seguenti. Tutto a portata di clic. E provate a sognare terre inesplorate con migliaia di satelliti che vi ronzano sulla testa; provate a scandire la vita attraverso le fasi lunari in mezzo a una cappa di smog, asfalto  e luci artificiali. Ci hanno tolto il mondo da sotto i piedi e ora provano a vendercene un altro.

Il 21 dicembre è da millenni, e di certo non per moda, la data fondamentale che nell’emisfero boreale segna il Solstizio d’estate. Ne avevo già tracciamo un’analisi sul periodico “Sole e acciaio”, per cui non mi dilungo e faccio riferimento a quest’ultima. Intendo solamente mettere in rilievo l’importanza e il significato di celebrare un rito atavico come il ritorno del Sole, nell’esatto momento in cui il resto del pianeta annega tra i flutti inquinati delle mode commerciali. In questo periodo storico si parla tanto, e molto spesso a sproposito, di “rivoluzione”. Bene, tra le priorità, la rivoluzione spirituale è la prima da affrontare. Siamo noi, soli con noi stessi; o meglio contro noi stessi: contro il borghese, civilizzato, assuefatto sotto-uomo che ci pervade.

Questo non è un derby calcistico, non è un diverbio pro-Halloween o anti-Halloween e nemmeno una questione di gusti e preferenze. Stiamo parlando di uno scontro frontale tra l’atavica dignità spirituale e una dolciastra auto-compiacenza plebea. Insomma, quest’anno il 21 dicembre è molto più di una semplice casella sul calendario. Il 21 dicembre 2012 vi sta mettendo dinnanzi a un bivio: uomini o consumatori; spirito o gregge; Sole o ventre. Come sempre, questione di scelte.

mercoledì 3 ottobre 2012

La politica “oltre”: il sorpasso di ogni anacronismo

Si inserisce nel mondo politico odierno, soprattutto in certe frange “radicali”, il dibattito sul valore del passato, in particolare riguardo ad alcune epoche a noi temporalmente più vicine. E, nel caso dell’ambiente identitario-nazionalista (definito per convenzione, ma piuttosto grossolanamente, “destra radicale”) l’epoca in questione è quella fascista.

Come porsi di fronte a un periodo storico che, volenti o nolenti, ha lasciato il segno nel nostro modo di pensare e si ripercuote sulla lente attraverso cui le persone esterne spesso filtrano le nostre posizioni?

Partiamo dalla distinzione di due coppie di concetti antitetici: la prima riguarda il “vecchio” e l’“antico”, su cui credo di non dovermi soffermare; si potrebbe anche dire: la differenza tra “nostalgismo” e “tradizione” – e credo che le marcate accezioni (rispettivamente negative e positive) dei termini si commentino da sé.

La seconda questione, più complessa, vede in contrapposizione le locuzioni di “anacronistico” e “inattuale”. Benché possano sembrare concetti abbastanza simili, sinonimi forse per i più profani, tra i due termini corre in realtà un abisso.

Anacronismo (da un qualsiasi dizionario): Errore cronologico per cui si collocano in un periodo storico avvenimenti o fenomeni accaduti in un'altra epoca. Figurativo: Estraneità, diversità rispetto alla propria epoca; idee che sono un anacronismo.

Un concetto si definisce quindi anacronistico quando è temporalmente fuori posto, cronologicamente mal collocato; anacronistico sarebbe, ad esempio, parlare di Austria-Ungheria o di U.R.S.S. in un tema d’attualità. Anacronistico è quindi definirsi fascisti oggi, o atteggiarsi a tali, per tornare allo spunto da cui eravamo partiti.

Passiamo allora alla definizione di inattuale. Mi permetto di scomodare un passo di più articolato della semplice formula da vocabolario. Cito alla lettera:

È inattuale ciò che non si misura né si confronta con il tempo, perché non gli è di genere conforme. L’essere inattuale rimane estraneo alla dialettica delle condizioni che l’attualità moderna, con l’oscuramento di elementi originari del reale, si propone di imporre al pensiero, rendendolo moda attuale. L’inattualità introduce la dissonanza nell’uniformità del discorso sociale e così comunica la consapevolezza della falsità di quest’ultima. (Edizioni di Ar, introduzione alla collana “Gli inattuali”).

Da questo spunto possiamo dedurre che il termine “inattuale” possiede in realtà un’accezione positiva, poiché non rimane indietro nel tempo, bensì riesce a passarvi oltre. Sopra, se può rendere maggiormente l’idea; quell’über tanto caro al filosofo che ci ha insegnato l’oltreuomo.

Ma la politica non è astratta e non è composta da idee – al limite è composta dalle idee – e quindi la sfida odierna sta nell’attualizzare i concetti inattuali, plasmandone la parte feconda, adattandola e realizzandola concretamente nel contesto presente.

Concludo con un’ultima citazione, invitando chiunque faccia politica a non accontentarsi di fantasticare sul passato; a non pretendere di esportare nel Ventunesimo secolo modelli e simbologie mummificati nel passato. Ma, partendo dal nostro bagaglio di storia (che ha almeno diecimila anni e non un misero ventennio), ora più che mai è necessario corroborare la nostra lotta nel pieno presente, attraverso la consapevolezza pragmatica dell’uomo attuale e i principi cardine dello spirito inattuale.

Bisognerebbe dar ragione a questi odierni scettici, antagonisti della realtà e microscopico-indagatori della coscienza: il loro istinto, grazie al quale essi vengono strappati via dal corso della moderna realtà, è incontestabile – che ci importa dell’andirivieni delle loro tortuose vie! L’essenziale in loro non è il loro volere “tornare indietro”: ma il loro volere “andare via”! Un po’ più di forza, slancio, coraggio, temperamento artistico: ed essi vorrebbero mirare oltre – e non indietro. (F. W. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”)

mercoledì 5 settembre 2012

L'orgoglio di Dracula

Dracula, senza dubbio l’opera più celebre dell’irlandese Bram Stocker, non è solamente il romanzo che ha plasmato il modello del vampiro per eccellenza nella letteratura dal XIX secolo ai giorni nostri; alcuni passi, piccoli dettagli e racconti nel racconto, offrono parecchi spunti riflessivi di vario genere. Mi soffermerò a indagare i personaggi alla luce delle loro qualità etniche, culturali o nazionali.

La vicenda si svolge quasi interamente nella Londra di fine ‘800, pertanto londinesi sono quasi tutti i protagonisti; da questi si discosta il dottor Van Helsing, un olandese, che incarna la conoscenza e la cultura che solo una città portuale e fiorente come l’Amsterdam del tempo potrebbe conferirgli. Il secondo non-inglese è il Texano Quincey P. Morris, abile cacciatore e coraggioso uomo d’azione, elogiato proprio da un inglese con parole eloquenti e profetiche: «Se l'America continuerà a produrre uomini così, diventerà davvero una potenza mondiale!»

Con la comparsa di un ferreo capitano di nave scozzese e di un timoniere russo che, rimasto l’unico sopravvissuto della ciurma, muore eroicamente legandosi al timone e compiendo il suo dovere fino all’ultimo respiro, finisce la rassegna sull’Europa occidentale.

Una buona parte del racconto si svolge però in quella che è grossomodo l’attuale Romania. Qui, durante un viaggio che si snoda dalla costa del Mar Nero fino alle vette dei Carpazi, gli inglesi osservano la popolazione locale, composta da valacchi e transilvani: la descrivono come accogliente, lavoratrice e parecchio superstiziosa. Diversa è l’aura che l’autore conferisce agli tzigani, zingari mercenari e irriconoscenti, che arrivano addirittura a tramare contro il popolo presso cui vivono e a mettere a repentaglio la sicurezza dell’intera umanità.

Ma c’è un personaggio in particolare – colui che dà il titolo all’opera stessa – che, in un dialogo con l’ospite inglese che intrattiene nelle sale del suo imponente castello, si immerge in un excursus storico sulla sua stirpe gloriosa. Senza nascondere sin dall’inizio l’orgoglio che prova, il fittizio conte Dracula – ispirato in realtà al personaggio storico Vlad III di Valacchia, meglio noto come Vlad Țepeș, «l'Impalatore» – ripercorre le lunghe tappe della sua nobile discendenza. Con queste parole ardenti il conte ci lascia l’esempio di un orgoglio atavico indissolubile, frammisto a nostalgia ma privo di rassegnazione, inserito in quell’atmosfera di epoche scomparse che Stoker ha il merito di farci rivivere con infinita passione.


"Noi Szekely abbiamo il diritto di essere orgogliosi, perché nelle nostre vene scorre il sangue di molte razze valorose che hanno combattuto come leoni per il predominio. Qui, nel vortice delle razze europee, la tribù degli Ugri ha portato dall'Islanda lo spirito guerresco di Thor e di Odino, e lo spirito che i loro Bersekir hanno dimostrato con furia selvaggia non solo sulle coste d’Europa, ma anche dell'Asia e dell'Africa, tanto che i popoli si sono convinti che fossero giunti i lupi mannari stessi. Quando arrivarono qui, trovarono gli Unni, la cui furia marziale era dilagata sulla terra come una fiamma vivente, finché i popoli moribondi si convinsero che nelle loro vene scorreva il sangue delle antiche streghe che, espulse dalla Scizia, si erano accoppiate con i demoni del deserto. Folli, folli! Quale demone o quale strega fu mai grande come Attila, il cui sangue scorre in queste mie vene? – e ha alzato le braccia.

Meraviglia forse che fossimo una stirpe conquistatrice, che fossimo fieri; che quando i Magiari, i Longobardi, gli Avari, i Bulgari o i Turchi si riversavano a migliaia sulle nostre frontiere, noi li respingessimo? È forse strano che quando Arpad e le sue legioni seminarono distruzione nella patria ungherese, trovassero noi ad attenderli alle frontiere; strano che l'Honfoglalas si fermasse lì? E quando la marea ungara dilagò verso est, i Magiari vittoriosi proclamarono la loro parentela con gli Szekely, affidando a loro la protezione del confine con la terra dei Turchi nei secoli e oltre, poiché, come affermano i Turchi stessi: «l'acqua dorme ma il nemico veglia».

Delle Quattro Nazioni chi ha ricevuto con maggiore orgoglio la «spada insanguinata», e chi è accorso con maggiore prontezza sotto lo stendardo del Re al grido di battaglia, quando è stato vendicato il grande disonore alla mia nazione, la vergogna del Kosovo: quando i vessilli dei Valacchi e dei Magiari sono stati ammainati davanti a quello della Mezzaluna? Chi se non uno della mia stirpe, in qualità di Voivoda, ha attraversato il Danubio e sconfitto i Turchi sul loro stesso suolo? Un Dracula, naturalmente! Gran calamità fu che il suo indegno fratello, caduto il Voivoda, abbia venduto il suo popolo ai Turchi trascinando su di loro l’infamia della schiavitù!

Non è stato questo Dracula a ispirare quell'altro della sua stirpe che, in epoca successiva, più e più volte guidò le sue forze di là dal Grande Fiume, nella terra dei Turchi. Quello che, sconfitto, tornò ancora e ancora e ancora, a costo di attraversare da solo il campo di battaglia su cui giacevano insanguinate le sue truppe, sapendo che soltanto lui avrebbe infine potuto trionfare! Dissero che pensava solo a sé. Bah! A che valgono i contadini senza un capo? Dove finirebbe una guerra senza un cervello e un cuore a condurla?

E ancora, quando dopo la battaglia di Mohács abbiamo rovesciato il giogo ungherese, noi del sangue dei Dracula eravamo tra i condottieri, perché il nostro spirito non poteva tollerare la mancanza di libertà. Ah, giovane signore, gli Szekely - e i Dracula quale cuore, sangue, cervello e spada di quella stirpe - possono vantare successi che quelle muffe di nome Asburgo e Romanoff non possono neppure sognare! I giorni guerreschi sono finiti. Il sangue è una cosa troppo preziosa in questi tempi di pace disonorevole; e delle glorie delle grandi razze non restano che i racconti."

martedì 15 maggio 2012

Eroi invisibili


Nel mondo dei sorrisi forzati c’è un mondo che non molla la presa. È il pianeta degli ultimi e dei reietti, quelli che nella vita non hanno mai trovato un posto comodo e forse nemmeno l’hanno cercato. Voglio raccontarvi di loro.

Di uomini dimenticati da Dio, che però non si scordano mai di Lui; di ragazzi che hanno affrontato le sfide della vita a schiena curva e testa alta, gente a cui non basta un assegno popolare per dire “grazie” al proprio padrone.


Vi narro di guerrieri instancabili, che, armati fino ai denti di mentalità e qualche dito di birra nel boccale, combattono ogni giorno la decadenza del nostro secolo, anche per noi.


Canto della forza di volontà di chi per molti nemmeno esiste, fantasmi scomodi da nascondere agli sguardi dei bambini. Vi dipingo la felicità di chi sa ancora donare quel poco che ha e non baratterà mai la propria anima con una bella apparenza.


Vi porto per mano a conoscere chi non entrerà mai in un privè, perché la strada e la taverna sono la sua vera casa. Imprimo nero su bianco – così che non lo possiate dimenticare – l’esempio di coloro che, per timore o per umiltà, altrimenti non parlerebbero mai di sé.


Maestri di fede, essi hanno preferito restare in pace con sé stessi, piuttosto che in tregua con un mondo che non li rappresenta. Gli rendo la voce che non hanno mai avuto, per chiedervi di venire a trovarli e scoprire che, dopo tutto, gli eroi invisibili esistono davvero.


giovedì 26 aprile 2012

Doge non si è fermato... si solo è trasferito!

Comunico ufficialmente anche da questo canale che, se ormai da molto non aggiorno il blog, è perché è nato nel mese di marzo di quest'anno l'idea di creare un giornale universitario a cadenza mensile: Sole e Acciaio.
Il progetto è partito bene e speriamo continui ancora meglio. Chi volesse continuare a leggere le mie produzioni mi troverà lì a nome Spartacus (in particolare segnalo l'introduzione, scritta di mio pugno).
Non mi dilungo troppo, lascio di seguito tutti i contatti presso cui approfondire la questione, approfittandone per ringraziare i miei nuovi "colleghi" e lettori.
Questo spazio tuttavia non morirà, continuerò a scrivervi quando ne avrò la possibilità.
« L’arte marziale è morire insieme ai fiori,
la letteratura è coltivare fiori imperituri. »
Yukio Mishima

martedì 28 febbraio 2012

Ceri per i morti di Alesia

Accendere ceri, ripetere orazioni, perpetuare sacrifici. Siamo gli eredi degli spiriti di Alesia. Siamo i figli del martirio, risorti dal sangue di un mondo che ha donato la vita a sé stesso. Siamo le carcasse dei guerrieri immolate alla resistenza ad oltranza. Siamo le schiere galliche falciate della volontà di potenza romana. Siamo le testuggini quirite sventrate dal furore d’oltralpe. Siamo la civiltà e la sua negazione. Siamo gli eredi di Alesia.

Innalziamo ceri ai morti vivi e libagioni agli Dei, mentre i vivi morti ci circondano e popolano un pianeta nato dalle rivoluzioni. Noi, che siamo i figli del sangue, accendiamo una fiamma per ogni spirito morto vivo. Eleviamo al cielo l’estrema luce delle anime nelle notti senza luna e senza stelle, nei giorni di nebbia in cui il sole non è che il ricordo di uno stupendo passato.

Meno preghiere e più silenzio: è quello che ci chiedono i morti. Ceri, ceri e ancora ceri; così tanti ceri da oscurare l’aldilà. Tanto silenzio da intimorire gli animali notturni, da far presagire ai corvi un ritorno alla vita. Questa è la nostra rivoluzione: una battaglia senza clamori e un ricordo senza rimpianti. La vostra vita è morte, la nostra morte è vita.

Crepita una pira innalzata sugli scudi e sulle ossa. Nitriti di cavalli spezzano le tenebre sferzando di brividi le schiene temprate dall’acciaio. Insegne illuminate a metà dalle fiaccole, gonfiate dal vento, indicano ai morti la via da seguire; ai vivi, l’ultima redenzione. Le lame scintillano in tributo al valore e al sacrificio degli Avi.

Pesanti elmi, calati sul viso, mostrano all’uomo la visuale della battaglia e lo fanno sentire a casa. Un’ultima arringa, le spade contro gli scudi, le urla allineate e la marcia cadenzata. Siamo in prima linea, per raggiungere i morti di Alesia.

lunedì 13 febbraio 2012

Uccidi il morto che è in te

Le ragazze sono come l'arredamento di casa: per quanto possa valere un mobile, quando diventerà troppo ingombrante o stonerà con il colore della moquette, lo potrai sempre cambiare con un altro.
Al contrario, non so quante versioni della tua Coscienza e del tuo Onore circolino sul mercato.
Non dare peso alle cose superflue è grande sintomo di maturità.

L’introduzione al mio testamento sembra suonare bene. In realtà avrei voluto piazzarci una citazione di Leonida o Decio Mure, ma poi vai a dirglielo che non sei morto in battaglia perché di guerre non ne fanno più. Come perché? Hai mai visto guerre tra morti? Non dico tra poveri, fratelli o concittadini, ma tra morti.

Non li sto scomodando, sia chiaro. Sono spirato anch’io se stai leggendo il mio testamento. E premetto che non ho niente contro i diversamente vivi e non sono neppure necrofobo. Ma voi siete la palinodia di Michael Jackson e vi tinteggiate per sembrare meno freddi. Lo capirebbe anche un bambino che non fate guerre solo perché la cosa più viva che si può trovare in uno Stato democratico è il parlamento. Prendetene atto: siete morti, come me, e come me insepolti. Ma a differenza mia vagate ancora, testardi, su questo pianeta.

Vi serve un post-it per ricordarvi che qui siete sgraditi? Non sentite le voci dei vostri morti che vi deridono? Che fanno le barricate per non avervi vicini di banco nell’Aula dei Defunti? Fuggite come profughi dalle piantagioni intensive di ananas e non avete pensato a inventarvi un’Europa cui chiedere asilo. Anche perché in Europa sono tutti morti, e l’unica igiene del mondo è da parecchio tempo in cassa integrazione.

Lascio il testamento in bianco, perché so che sul mio cadavere banchetteranno i corvi (vivi) e le mie vesti se le spartiranno i coyote. Tutto ciò che non sia commestibile per un branco di iene l’ho già bruciato: non lascio niente alla Caritas dei deceduti. Ci tenevo solo a concludere con una frase ad effetto, magari un’invettiva contro un personaggio famoso. Stalin? Schettino? Nabucodonosor? Ogni volta scadevo nella banalità. Poi, finalmente, l’illuminazione. Dopo aver tentato con esiti fallimentari un epitaffio e un panegirico della Guerra, ho trovato un degno bersaglio. Buona lettura, corvi!

Occhio per occhio: è destino che il mondo diventi cieco.
Ci fanno la morale del perdono perché ci vogliono accecare loro, per poi deriderci dall’alto dei loro monocoli.
Ci vogliono ciechi e ci avranno morti.
Gandhi capra, servo del sistema.

martedì 31 gennaio 2012

Il vento, il freddo e una legione di angeli morti



testo inglese

L'acqua riversa le sue braccia attorno alla pietra
La decadenza gocciola dal vuoto inquieto dove si forma il ghiaccio
Dove la vita finisce

La pietra inghiottita dall'alluvione porporea
La marea rossa contorta al di là della ferita d’ebano
Offro il mio sacrificio di addio in questo fiume di memoria...
Un'onda per porre fine a tutti i tempi

Uccelli rossi sfuggono dalle mie ferite e ritornano come neve che cade

Per spazzare il paesaggio; una tormenta di neve, ali senza corpi
La neve, la nevicata amara

Desideri morire tra le sue braccia pallide, cristalline
Per diventare un inno al silenzio

Nell'anima di una montagna di uccelli, caduti
La pallida cascata di piume senza spirito

La neve è caduta e ha esteso questa montagna bianca
Su cui morirai e svanirai nel silenzio





testo inglese

Si trova una bellezza dietro alle porte di legno proibite
Una bellezza così rara e pura, che farebbe sanguinare
E bruciare gli occhi umani...


...Si è uccisa in autunno...

Io sono il devastatore, porto la bella morte all'alba
Con il vento, il freddo e una legione di angeli morti...

...Mi sono ucciso in primavera...

Un ramo tetro mi aveva appeso in alto
Ho affondato i fuochi del Sole
Qui, regna la notte

Mi oppongo alla luce
Raccolgo le tempeste
Con una spada che impugno con odio
Ho abbattuto il sole con arco e fuoco
Vento per l'inverno morti

Io sono il devastatore... l'epilogo
Io... muoio...
Ho maledetto gli inverni morti...

domenica 29 gennaio 2012

Quello che le torce non dicono


Una dose di depressione con l’IVA del 23%. Bella merda. Per colpa della guerra all’Isola del Giglio mi tocca pagare le accise anche per piangere in cucina. Tempi che corri, uomo che trovi! Quello di oggi si fa rappresentare dal Dimeglio e dagli ormoni in scatola, perché la coda per il Discobolo e il martello di Thor erano troppo lunghe. Il terrestre medio è talmente brutto che sembra un capolavoro d’arte moderna.

Hai presente la scena dei Griffin in cui Peter, Brian, Chris e Stewie vomitano a turno per un minuto? Ecco, quella è l’effige del nostro uomo. Ma arriva un momento nel quale anche il Fantozzi della situazione si stanca di vomitare sciroppo di ipecac su un cane parlante negli spezzoni più beceri di Youtube. E si prende la sua rivincita. Solo che sessanta milioni di tarli muniti di striscioni non fanno nemmeno mezzo Fantozzi incazzato come una bestia.

Mando giù gli ultimi pezzetti di cera e mi infilo lo stoppino nella carotide. È sempre stato il mio sogno fare la torcia umana.

Cosa vuoi fare da grande Pierino?
Il calciatore.
E tu, Pierino?
Il vip, maestra.
Il Pierino là in fondo, con la mano alzata?
Il cassiere al Burger King.
Epaminonda?
La torcia umana.

Non ho mai capito perché tutti quei bambini stupidi si chiamassero Pierino, come non so spiegarmi come possano dozzine di camionisti prussiani eludere la frontiera polacca per smerciare carne di Pierino nella Terra di Mezzo. Che poi Bigazzi è finito nei guai per un fottuto gatto: se si scoprisse cosa mangiano i polacchi, oggi la storia la scriverebbero i vinti.

L’accendino, in bilico sull
orlo del tavolo, è uno di quelli che ti danno in omaggio con il mutuo della casa. L’impiegato della filiale, con il solito sorrisino stronzo, fa sempre la battuta delle bombole a gas. E lo sa lei, invece, che mescolando parti uguali di benzina e succo d'arancia congelato si può ottenere il Napalm? Allora, non rideva più, il coglionazzo?

Sfoglio le pagine del Bushido cercando il capitolo sui rettiliani, ma forse sto alludendo al profeta Matteo Montesi. Provo e riprovo a replicare le sue vocine, solo per sentire che effetto fa essere perseguitati da una vocina più grossa che si fa chiamare Dio.

Matteo me devi fà un favore… disciamo… particolare. Vedi, la sbocca del fiume Musò, ecco, quella è piena de frogi... ma nello stesso tempo nun me va de ripulilla. Buccace te dai, poi sce carighi il viduo su iutubbe cuscì lo condivido sulla mia pagina. Grazie mattè, certo, lode e gloria nel più alto dei cieli anche a te. Ciao, ciao... Come? No, nun lo so cus’è un topettignao. Scusa ma ho poghi quattrì, stamme bè ciao.

Basta divagare: se un uomo non è disposto a dare fuoco alla sua laringe, o le sue vocine non valgono nulla o non vale niente lui. Di sottofondo rumoreggia un canto tribale azteco, di quelli che mettevano a palla sullo stereo prima di mangiarsi il capotribù nemico. In umido, come Bigazzi.

Una firma qui, un autografo qui… secondo le regole previste dalla legge… lascia ogni suo bene all'erede al trono del Principato del Disagio. Molto bene, un timbro ed è a posto. Gli organi li vuole donare per la ricerca? Come no. Ha da accendere?

Fonte di ispirazione: svartjugend.com

sabato 7 gennaio 2012

Manifesto della Pazzia



Crediamo nella pazzia che si fa azione.
Siamo quei pazzi di professione che nascondono la propria ragione nella fondina. Siamo ferrei nel nostro mestiere, né ragionevoli né moderati. Le nostre tasche potrebbero essere piene, ma sono libere da ogni costrizione materiale, poiché mai abbiamo osato profanarle.

Non siamo affetti da crisi di identità: ne abbiamo così tante da doverle alternare.
Ieri saltellavo con una tromba simulando la breccia di Porta Pia nel mio garage, oggi piango sulla foce di un fiume lamentando di non trovare più quel sasso colorato che facevo saltare sull’acqua. Nulla di ciò che apparteneva al giorno precedente ha senso in quello successivo, poiché in mezzo c’è una luna e c’è un cielo stellato, che già costituisce un’era a sé. Parlo in armeno per ore con un imperatore kazaco, prima di capire che sto soffiando in una bottiglia di aceto per aspirarne gli aromi. In fondo, chi siamo noi?

Siamo il pendolo tra il nichilismo e il Superuomo.
Passiamo dal desiderio ardente di elevarci sopra noi stessi e sopra il mondo, a quello di volerci restare sotto per sempre. Dall’aquila al verme, il nostro animale totem può saltellare beatamente da un estremo all'altro scivolando sulle le vie di mezzo.

Teniamo monologhi con gli altri, dialoghi su noi stessi e discorsi con gli animali.
Ci teniamo alla cura delle relazioni con il nostro io: è sufficiente qualche telefonata alla coscienza prima di andare a dormire e un po’ di pubbliche relazioni nel fine settimana con l’autostima. Il miglior interlocutore è colui che non si affanna a trovare un difetto di pronuncia ad un’orazione il cui vocabolo meno onomatopeico è “clap clap”. Come destinatari, agli uomini preferiamo gli animali, che, nemmeno tanto per assurdo, capiranno meglio di altri il senso di questo manifesto.

La nostra religione è Romanticismo; la nostra democrazia è Reazione.
Sul nostro altare soppesiamo i sentimenti, per redigere attentamente l’andamento in borsa delle emozioni e delle sensazioni. Si badi che Romanticismo non è nulla di poetico né sdolcinato: un corvo intento a recidere chirurgicamente l’occhio di un cadavere sul ciglio della strada è per noi un quadretto romantico. Quello che intendiamo con Reazione è invece l’asse politica del nostro essere e divenire: il rifiuto di ogni giogo che non sia spontaneamente addossato; il biasimo nei confronti dell’attuale, della moltitudine e del perbenismo; la consapevolezza che tutto scorre: all’infuori, naturalmente, della mediocrità umana.

Vieni nostra trinità: misantropia, disprezzo, isolamento.
Uno e trino è meglio di un gruppo di tre, perché troppe presenze implicano un eccesso di compagnia. Il nostro manifesto si prefigge di riunire ogni pazzo in una comunità platonica. Nessuna congregazione fisica, nessuna azione coordinata potrebbe esistere tra pazzi, perché frequenze diverse esigono canali diversi. E perché forse noi, una frequenza, nemmeno l’abbiamo.
« La pazzia è ribrezzo, veneralo.
La pazzia è una disgrazia, accoglila.

La pazzia è fame, cucinala.
La pazzia è un incubo, realizzalo.
La pazzia è un puzzle, confondilo.
La pazzia è un sorteggio, pilotalo.
La pazzia è un sole, contemplalo.
La pazzia è un bonsai, coltivalo.
La pazzia è una debito, screditalo.
La pazzia è orrore, vomitalo.
La pazzia è un mistero, difendilo.
La pazzia è giuramento, onoralo.
La pazzia è tristezza, piangila.
La pazzia è una cadenza, marciala.
La pazzia è una guerra, conducila.
La pazzia è un ardimento, osalo.
La pazzia è morte, seppelliscila.
La pazzia è pazzia, saziala. »