Mi vergogno delle polemiche che si sollevano ogni anno sul tema delle foibe e dell’esodo istro-veneto dalle terre “al di là dell’acqua” avvenuto nella seconda metà degli anni ’40 del secolo scorso. Sarebbe ora di smetterla, per dignità, di giocare carte politiche sulla pelle e sulle anime di migliaia di persone trucidate e centinaia di migliaia esiliate.
La storia dovrebbe offrirci la possibilità di capire il presente attraverso il passato e invece spesso, troppo spesso, soprattutto in ambito moderno-contemporaneo, diventa occasione di sfruttamento per fini poco nobili.
Analizzare la tragedia delle foibe da un punto di vista storico significa partire dalle cause scatenanti, passando attraverso le responsabilità dei carnefici e le sofferenze delle vittime, giungendo così a trarne un insegnamento che possa arricchirci culturalmente e personalmente, oltre a contribuire nella ricerca di una soluzione alla situazione che, da sessant’anni a questa parte, si è venuta a creare nella zona interessata.
Ricordare le foibe vuol dire fare informazione storica - noto con amarezza come per molti queste siano solamente un fenomeno geologico e per altri nemmeno quello - spiegare cosa sono, da chi e come sono state utilizzate e quali le cause e gli effetti storici nonché geopolitici che le hanno accompagnate. Non può risultare slegato dal discorso un quadro sulla situazione istriana e dalmata, il cui suolo è stato teatro dell’accanimento dei due fronti: da una parte il comportamento arrogante e colpevole assunto dall’Italia dagli anni ’20 in poi - con l’italianizzazione forzata nei confronti di veneti e slavi e le conseguenti persecuzioni verso i dissidenti, fino ad arrivare alla connivenza con la Jugoslavia dei politici del dopo guerra, Togliatti e De Gasperi per non fare nomi - dall’altra le efferatezze perpetrate dalle truppe jugoslave di Tito sui vinti.
Poi assistiamo allo squallido rimbalzo delle responsabilità: slavi e comunisti additano come invasori e colpevoli di atti barbarici - giustificando i propri - gli italiani e i fascisti; a loro volta questi mettono in luce solamente le colpe degli altri rivendicando le proprie pretese sulle terre adriatiche sottratte dalla “vittoria mutilata”. Tesi sostenuta da pochi è quella che vede nel colpevole l’esasperato nazionalismo di entrambe le parti in gioco. Un nazionalismo artificioso e di stampo tardo-ottocentesco che oggi non ha più ragione di esistere (la Jugoslavia si è frammentata, l’Italia non ancora) ha portato rancore e distruzione in una terra in cui da secoli popolazioni di diverse radici, dagli illiri agli austriaci passando per slavi e veneti, hanno saputo convivere serenamente.
Il divario tra le componenti etniche è scattato come una miccia incontrollabile nel momento in cui quella terra doveva essere italiana o jugoslava: ovvero, in entrambi i casi, diventare parte di qualcosa a cui non apparteneva. Semplicemente l’Istria era Istria e la Dalmazia Dalmazia, al di là di come la potessero pensare in Italia o in Jugoslavia. Da questa lezione storica risulta chiaro che l’imposizione forzata di un’identità artificiale che non tenga conto di quelle vere pre-esistenti non può portare che scompiglio se va bene ed eccidi efferati quando la situazione precipita.
Agli infoibati, agli esuli e a tutte le vittime di questa tragedia va il nostro silenzioso compianto. Per loro e per noi stessi manteniamo vivo il ricordo, nel lutto e nella consapevolezza, perché il sangue versato e i soprusi subìti non siano vani né dimenticati.