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mercoledì 4 dicembre 2013

Fabio e Daniel: fratelli presenti!

Torno dopo un anno a scrivere sul blog, ancora una volta a dicembre. Forse perché, verso la fine dell’anno, si fa vivo un desiderio arcaico che di rinascita: la vicinanza del solstizio invernale si fa sentire.

Quest’anno voglio parlare di due fratelli. Due miei fratelli, di fede e di mentalità. Uno vicino, conosciuto per caso due anni fa e rivisto un anno dopo frettolosamente tra i necrologi dei quotidiani locali. L’altro, più lontano, è un ricordo più ideale che fisico che mi ha accompagnato negli anni.



7 dicembre 2012-2013: Fabio Karahockey PRESENTE!

Era un uomo di altri tempi, Fabio. Un gigante che nella modernità si è sempre trovato alle strette; persona di poche parole, vagabondo pur sempre dignitoso. Mentre la città borghese sonnecchiava, lui girava nella notte, tra i fasci di luce degli anabbaglianti sviliti, portando sempre con sé una canna da pesca. Simbolismo quasi messianico.


Chi ne avesse scorto la sagoma da lontano, l’avrebbe sicuramente scambiato per un Don Chischotte nostrano, in cerca di un bar che lo aiutasse ad affogare tutto il cuore in fondo al bicchiere.


Fabio è morto una sera come tante, mentre rincasava. In quella serata uggiosa, le automobili sfrecciavano anonime sulla statale, come sempre, come se lui non esistesse. Una infine l’ha colpito, immenso colpo d’obice che piomba ferino sul fante impotente, fermo sull’attenti, la baionetta innestata e il moschetto stretto al petto.


Dopo qualche giorno di sofferenza, gli Dei l’hanno voluto con sé: Fabio era un profeta che gli umani non avrebbero mai potuto apprezzare. Non tutti, per lo meno. Come Zarathustra, egli era venuto troppo presto. E come tutti gli eroi, se n’è andato presto.


Quest’anno la comunità identitaria bresciana ricorderà Fabio Karahockey nello stile che la contraddistingue: organizzando un torneo di calcetto a 5 in suo nome. Prosit, Fabio! Ci rivedremo nel Walhalla per un’altra bevuta!




8 dicembre 2000-2013: Daniel Wretström PRESENTE!

Era una sera di dicembre come tante altre. Correva l’anno 2000 e Daniel aveva diciassette anni. Un ragazzo come tanti, con mille pensieri in testa, sogni, ideali. Questi ultimi, però, gli costarono cari. Quella notte sette persone, tra cui alcuni suoi coetanei, per la maggior parte immigrati, decisero che avrebbe dovuto pagare per la sua militanza politica.


A Daniel non fu concessa nemmeno la possibilità del coma: la vita fluì tra i rivoli di sangue sul cemento della sua città, Salem, pochi chilometri a nord di Stoccolma, mentre le iene gli frantumavano il cranio.


La storia di Daniel Wretström è stata una delle prime che ho letto a inizio militanza, ancora nel 2006. L’8 dicembre per me non è un giorno qualsiasi, come non lo è per chi ancora non lo dimentica: ogni anno, alcune migliaia di Svedesi ed Europei si riuniscono a Salem per una fiaccolata in suo ricordo.


La sua morte, e soprattutto la sua vita, insieme a quelle dei tanti ragazzi che hanno lasciato questo mondo, ci ricordano una volta all’anno perché stiamo lottando. Per chi stiamo lottando. Un saluto a Daniel, martire e fratello nella lotta. Anche per te!




martedì 11 dicembre 2012

21 dicembre: la fine del mondo siete voi!

Secondo una diceria infondata, diventata moda commerciale grazie a film e social network, il famelico (quanto fittizio) calendario dei Maya sancirebbe la fine del mondo per il 21 dicembre 2012. Non si capisce perché, non si sa come, ma il momento pare incontestabile. Psicosi di massa: situazioni da scomodare Freud, se questo non allontanasse troppo il discorso. Analisi psicoanalitiche e chiacchiere da videoconsumatori a parte, l’occasione come al solito risulta propizia per tentare un approfondimento intorno al concetto, estrapolando quanto sta alla radice di una fobia ingiustificata fino a un certo punto: vediamo perché.

Nelle società pre-civili, il tempo veniva scandito dagli eventi naturali: si trattava quindi di una visione circolare della realtà, che portava stabilità e rigenerazione. Basti pensare alla concezione della morte, vista in veste di “ritorno alla terra” in alcune civiltà europee, oppure come “reincarnazione” per quel che riguarda quelle orientali. Ma la storia, come una molla circolare e ripiegata in tensione su sé stessa, con l’arrivo della civiltà ha iniziato a distendersi e ad allungarsi, assumendo nel tempo una posizione sempre più vicina a quella rettilinea.

Presso i Romani, la circolarità del tempo ebbe un primo sussulto: si iniziarono a contare gli anni ab urbe condita, anche se i calendari rimasero in sintonia con un mondo ancora prevalentemente naturale e contadino  durante la Repubblica a fasi lunari e in seguito alla riforma giuliana a fasi solari. Il passo più lungo della gamba tuttavia lo ha fatto il cristianesimo: la dottrina della linearità per eccellenza. Nella nascita di Cristo, come in tutte le religioni rivelate, c’è quello spartiacque impenetrabile che divide categoricamente le “due storie”. E da qui dritti senza passare più dal via!

Un’altra tappa importante la segnano le Rivoluzioni industriali, che hanno spianato la strada alla trasformazione della società rurale e artigianale in società meccanica, dando vita al proletariato e alle masse urbane. Quasi contemporaneamente, nel 1789, La Rivoluzione francese partorisce quello che Nietzsche definirà “un gelido mostro”: lo Stato. E per marcare simbolicamente il cambiamento, tra le prime novità introdotte, il governo post-rivoluzionario annovera l’universalizzazione delle unità di misura (decimali) e del calendario astronomico. Il compimento della Rivoluzione si realizzerà in Europa nel Novecento, e soprattutto nel Secondo dopoguerra, con il diritto di voto incondizionato e l’affermazione della democrazia. Quest’ultima forma di governo può essere considerata il “non plus ultra” per la distensione della molla-storia. La democrazia ritiene sé stessa “la miglior forma di governo”: inalienabile, insostituibile, insuperabile. Per definizione, l’ultimo capitolo della storia.

All’apice dell’apice troviamo la tecnologia, germogliata in maniera esponenziale nell’ultimo decennio – TV, rete internet e telefono cellulare. Provate a mettervi in un cantone della vostra dimora, con il TG24 di sottofondo e il tablet a portata di mano, per chiedere in preghiera a un’entità superiore che il giorno seguente il clima sia mite. Persino il vostro personal computer, sulla scrivania, vi guarderebbe compassionevole mostrandovi il meteo delle settimane seguenti. Tutto a portata di clic. E provate a sognare terre inesplorate con migliaia di satelliti che vi ronzano sulla testa; provate a scandire la vita attraverso le fasi lunari in mezzo a una cappa di smog, asfalto  e luci artificiali. Ci hanno tolto il mondo da sotto i piedi e ora provano a vendercene un altro.

Il 21 dicembre è da millenni, e di certo non per moda, la data fondamentale che nell’emisfero boreale segna il Solstizio d’estate. Ne avevo già tracciamo un’analisi sul periodico “Sole e acciaio”, per cui non mi dilungo e faccio riferimento a quest’ultima. Intendo solamente mettere in rilievo l’importanza e il significato di celebrare un rito atavico come il ritorno del Sole, nell’esatto momento in cui il resto del pianeta annega tra i flutti inquinati delle mode commerciali. In questo periodo storico si parla tanto, e molto spesso a sproposito, di “rivoluzione”. Bene, tra le priorità, la rivoluzione spirituale è la prima da affrontare. Siamo noi, soli con noi stessi; o meglio contro noi stessi: contro il borghese, civilizzato, assuefatto sotto-uomo che ci pervade.

Questo non è un derby calcistico, non è un diverbio pro-Halloween o anti-Halloween e nemmeno una questione di gusti e preferenze. Stiamo parlando di uno scontro frontale tra l’atavica dignità spirituale e una dolciastra auto-compiacenza plebea. Insomma, quest’anno il 21 dicembre è molto più di una semplice casella sul calendario. Il 21 dicembre 2012 vi sta mettendo dinnanzi a un bivio: uomini o consumatori; spirito o gregge; Sole o ventre. Come sempre, questione di scelte.

mercoledì 3 ottobre 2012

La politica “oltre”: il sorpasso di ogni anacronismo

Si inserisce nel mondo politico odierno, soprattutto in certe frange “radicali”, il dibattito sul valore del passato, in particolare riguardo ad alcune epoche a noi temporalmente più vicine. E, nel caso dell’ambiente identitario-nazionalista (definito per convenzione, ma piuttosto grossolanamente, “destra radicale”) l’epoca in questione è quella fascista.

Come porsi di fronte a un periodo storico che, volenti o nolenti, ha lasciato il segno nel nostro modo di pensare e si ripercuote sulla lente attraverso cui le persone esterne spesso filtrano le nostre posizioni?

Partiamo dalla distinzione di due coppie di concetti antitetici: la prima riguarda il “vecchio” e l’“antico”, su cui credo di non dovermi soffermare; si potrebbe anche dire: la differenza tra “nostalgismo” e “tradizione” – e credo che le marcate accezioni (rispettivamente negative e positive) dei termini si commentino da sé.

La seconda questione, più complessa, vede in contrapposizione le locuzioni di “anacronistico” e “inattuale”. Benché possano sembrare concetti abbastanza simili, sinonimi forse per i più profani, tra i due termini corre in realtà un abisso.

Anacronismo (da un qualsiasi dizionario): Errore cronologico per cui si collocano in un periodo storico avvenimenti o fenomeni accaduti in un'altra epoca. Figurativo: Estraneità, diversità rispetto alla propria epoca; idee che sono un anacronismo.

Un concetto si definisce quindi anacronistico quando è temporalmente fuori posto, cronologicamente mal collocato; anacronistico sarebbe, ad esempio, parlare di Austria-Ungheria o di U.R.S.S. in un tema d’attualità. Anacronistico è quindi definirsi fascisti oggi, o atteggiarsi a tali, per tornare allo spunto da cui eravamo partiti.

Passiamo allora alla definizione di inattuale. Mi permetto di scomodare un passo di più articolato della semplice formula da vocabolario. Cito alla lettera:

È inattuale ciò che non si misura né si confronta con il tempo, perché non gli è di genere conforme. L’essere inattuale rimane estraneo alla dialettica delle condizioni che l’attualità moderna, con l’oscuramento di elementi originari del reale, si propone di imporre al pensiero, rendendolo moda attuale. L’inattualità introduce la dissonanza nell’uniformità del discorso sociale e così comunica la consapevolezza della falsità di quest’ultima. (Edizioni di Ar, introduzione alla collana “Gli inattuali”).

Da questo spunto possiamo dedurre che il termine “inattuale” possiede in realtà un’accezione positiva, poiché non rimane indietro nel tempo, bensì riesce a passarvi oltre. Sopra, se può rendere maggiormente l’idea; quell’über tanto caro al filosofo che ci ha insegnato l’oltreuomo.

Ma la politica non è astratta e non è composta da idee – al limite è composta dalle idee – e quindi la sfida odierna sta nell’attualizzare i concetti inattuali, plasmandone la parte feconda, adattandola e realizzandola concretamente nel contesto presente.

Concludo con un’ultima citazione, invitando chiunque faccia politica a non accontentarsi di fantasticare sul passato; a non pretendere di esportare nel Ventunesimo secolo modelli e simbologie mummificati nel passato. Ma, partendo dal nostro bagaglio di storia (che ha almeno diecimila anni e non un misero ventennio), ora più che mai è necessario corroborare la nostra lotta nel pieno presente, attraverso la consapevolezza pragmatica dell’uomo attuale e i principi cardine dello spirito inattuale.

Bisognerebbe dar ragione a questi odierni scettici, antagonisti della realtà e microscopico-indagatori della coscienza: il loro istinto, grazie al quale essi vengono strappati via dal corso della moderna realtà, è incontestabile – che ci importa dell’andirivieni delle loro tortuose vie! L’essenziale in loro non è il loro volere “tornare indietro”: ma il loro volere “andare via”! Un po’ più di forza, slancio, coraggio, temperamento artistico: ed essi vorrebbero mirare oltre – e non indietro. (F. W. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”)

mercoledì 5 settembre 2012

L'orgoglio di Dracula

Dracula, senza dubbio l’opera più celebre dell’irlandese Bram Stocker, non è solamente il romanzo che ha plasmato il modello del vampiro per eccellenza nella letteratura dal XIX secolo ai giorni nostri; alcuni passi, piccoli dettagli e racconti nel racconto, offrono parecchi spunti riflessivi di vario genere. Mi soffermerò a indagare i personaggi alla luce delle loro qualità etniche, culturali o nazionali.

La vicenda si svolge quasi interamente nella Londra di fine ‘800, pertanto londinesi sono quasi tutti i protagonisti; da questi si discosta il dottor Van Helsing, un olandese, che incarna la conoscenza e la cultura che solo una città portuale e fiorente come l’Amsterdam del tempo potrebbe conferirgli. Il secondo non-inglese è il Texano Quincey P. Morris, abile cacciatore e coraggioso uomo d’azione, elogiato proprio da un inglese con parole eloquenti e profetiche: «Se l'America continuerà a produrre uomini così, diventerà davvero una potenza mondiale!»

Con la comparsa di un ferreo capitano di nave scozzese e di un timoniere russo che, rimasto l’unico sopravvissuto della ciurma, muore eroicamente legandosi al timone e compiendo il suo dovere fino all’ultimo respiro, finisce la rassegna sull’Europa occidentale.

Una buona parte del racconto si svolge però in quella che è grossomodo l’attuale Romania. Qui, durante un viaggio che si snoda dalla costa del Mar Nero fino alle vette dei Carpazi, gli inglesi osservano la popolazione locale, composta da valacchi e transilvani: la descrivono come accogliente, lavoratrice e parecchio superstiziosa. Diversa è l’aura che l’autore conferisce agli tzigani, zingari mercenari e irriconoscenti, che arrivano addirittura a tramare contro il popolo presso cui vivono e a mettere a repentaglio la sicurezza dell’intera umanità.

Ma c’è un personaggio in particolare – colui che dà il titolo all’opera stessa – che, in un dialogo con l’ospite inglese che intrattiene nelle sale del suo imponente castello, si immerge in un excursus storico sulla sua stirpe gloriosa. Senza nascondere sin dall’inizio l’orgoglio che prova, il fittizio conte Dracula – ispirato in realtà al personaggio storico Vlad III di Valacchia, meglio noto come Vlad Țepeș, «l'Impalatore» – ripercorre le lunghe tappe della sua nobile discendenza. Con queste parole ardenti il conte ci lascia l’esempio di un orgoglio atavico indissolubile, frammisto a nostalgia ma privo di rassegnazione, inserito in quell’atmosfera di epoche scomparse che Stoker ha il merito di farci rivivere con infinita passione.


"Noi Szekely abbiamo il diritto di essere orgogliosi, perché nelle nostre vene scorre il sangue di molte razze valorose che hanno combattuto come leoni per il predominio. Qui, nel vortice delle razze europee, la tribù degli Ugri ha portato dall'Islanda lo spirito guerresco di Thor e di Odino, e lo spirito che i loro Bersekir hanno dimostrato con furia selvaggia non solo sulle coste d’Europa, ma anche dell'Asia e dell'Africa, tanto che i popoli si sono convinti che fossero giunti i lupi mannari stessi. Quando arrivarono qui, trovarono gli Unni, la cui furia marziale era dilagata sulla terra come una fiamma vivente, finché i popoli moribondi si convinsero che nelle loro vene scorreva il sangue delle antiche streghe che, espulse dalla Scizia, si erano accoppiate con i demoni del deserto. Folli, folli! Quale demone o quale strega fu mai grande come Attila, il cui sangue scorre in queste mie vene? – e ha alzato le braccia.

Meraviglia forse che fossimo una stirpe conquistatrice, che fossimo fieri; che quando i Magiari, i Longobardi, gli Avari, i Bulgari o i Turchi si riversavano a migliaia sulle nostre frontiere, noi li respingessimo? È forse strano che quando Arpad e le sue legioni seminarono distruzione nella patria ungherese, trovassero noi ad attenderli alle frontiere; strano che l'Honfoglalas si fermasse lì? E quando la marea ungara dilagò verso est, i Magiari vittoriosi proclamarono la loro parentela con gli Szekely, affidando a loro la protezione del confine con la terra dei Turchi nei secoli e oltre, poiché, come affermano i Turchi stessi: «l'acqua dorme ma il nemico veglia».

Delle Quattro Nazioni chi ha ricevuto con maggiore orgoglio la «spada insanguinata», e chi è accorso con maggiore prontezza sotto lo stendardo del Re al grido di battaglia, quando è stato vendicato il grande disonore alla mia nazione, la vergogna del Kosovo: quando i vessilli dei Valacchi e dei Magiari sono stati ammainati davanti a quello della Mezzaluna? Chi se non uno della mia stirpe, in qualità di Voivoda, ha attraversato il Danubio e sconfitto i Turchi sul loro stesso suolo? Un Dracula, naturalmente! Gran calamità fu che il suo indegno fratello, caduto il Voivoda, abbia venduto il suo popolo ai Turchi trascinando su di loro l’infamia della schiavitù!

Non è stato questo Dracula a ispirare quell'altro della sua stirpe che, in epoca successiva, più e più volte guidò le sue forze di là dal Grande Fiume, nella terra dei Turchi. Quello che, sconfitto, tornò ancora e ancora e ancora, a costo di attraversare da solo il campo di battaglia su cui giacevano insanguinate le sue truppe, sapendo che soltanto lui avrebbe infine potuto trionfare! Dissero che pensava solo a sé. Bah! A che valgono i contadini senza un capo? Dove finirebbe una guerra senza un cervello e un cuore a condurla?

E ancora, quando dopo la battaglia di Mohács abbiamo rovesciato il giogo ungherese, noi del sangue dei Dracula eravamo tra i condottieri, perché il nostro spirito non poteva tollerare la mancanza di libertà. Ah, giovane signore, gli Szekely - e i Dracula quale cuore, sangue, cervello e spada di quella stirpe - possono vantare successi che quelle muffe di nome Asburgo e Romanoff non possono neppure sognare! I giorni guerreschi sono finiti. Il sangue è una cosa troppo preziosa in questi tempi di pace disonorevole; e delle glorie delle grandi razze non restano che i racconti."

martedì 15 maggio 2012

Eroi invisibili


Nel mondo dei sorrisi forzati c’è un mondo che non molla la presa. È il pianeta degli ultimi e dei reietti, quelli che nella vita non hanno mai trovato un posto comodo e forse nemmeno l’hanno cercato. Voglio raccontarvi di loro.

Di uomini dimenticati da Dio, che però non si scordano mai di Lui; di ragazzi che hanno affrontato le sfide della vita a schiena curva e testa alta, gente a cui non basta un assegno popolare per dire “grazie” al proprio padrone.


Vi narro di guerrieri instancabili, che, armati fino ai denti di mentalità e qualche dito di birra nel boccale, combattono ogni giorno la decadenza del nostro secolo, anche per noi.


Canto della forza di volontà di chi per molti nemmeno esiste, fantasmi scomodi da nascondere agli sguardi dei bambini. Vi dipingo la felicità di chi sa ancora donare quel poco che ha e non baratterà mai la propria anima con una bella apparenza.


Vi porto per mano a conoscere chi non entrerà mai in un privè, perché la strada e la taverna sono la sua vera casa. Imprimo nero su bianco – così che non lo possiate dimenticare – l’esempio di coloro che, per timore o per umiltà, altrimenti non parlerebbero mai di sé.


Maestri di fede, essi hanno preferito restare in pace con sé stessi, piuttosto che in tregua con un mondo che non li rappresenta. Gli rendo la voce che non hanno mai avuto, per chiedervi di venire a trovarli e scoprire che, dopo tutto, gli eroi invisibili esistono davvero.


giovedì 26 aprile 2012

Doge non si è fermato... si solo è trasferito!

Comunico ufficialmente anche da questo canale che, se ormai da molto non aggiorno il blog, è perché è nato nel mese di marzo di quest'anno l'idea di creare un giornale universitario a cadenza mensile: Sole e Acciaio.
Il progetto è partito bene e speriamo continui ancora meglio. Chi volesse continuare a leggere le mie produzioni mi troverà lì a nome Spartacus (in particolare segnalo l'introduzione, scritta di mio pugno).
Non mi dilungo troppo, lascio di seguito tutti i contatti presso cui approfondire la questione, approfittandone per ringraziare i miei nuovi "colleghi" e lettori.
Questo spazio tuttavia non morirà, continuerò a scrivervi quando ne avrò la possibilità.
« L’arte marziale è morire insieme ai fiori,
la letteratura è coltivare fiori imperituri. »
Yukio Mishima

martedì 28 febbraio 2012

Ceri per i morti di Alesia

Accendere ceri, ripetere orazioni, perpetuare sacrifici. Siamo gli eredi degli spiriti di Alesia. Siamo i figli del martirio, risorti dal sangue di un mondo che ha donato la vita a sé stesso. Siamo le carcasse dei guerrieri immolate alla resistenza ad oltranza. Siamo le schiere galliche falciate della volontà di potenza romana. Siamo le testuggini quirite sventrate dal furore d’oltralpe. Siamo la civiltà e la sua negazione. Siamo gli eredi di Alesia.

Innalziamo ceri ai morti vivi e libagioni agli Dei, mentre i vivi morti ci circondano e popolano un pianeta nato dalle rivoluzioni. Noi, che siamo i figli del sangue, accendiamo una fiamma per ogni spirito morto vivo. Eleviamo al cielo l’estrema luce delle anime nelle notti senza luna e senza stelle, nei giorni di nebbia in cui il sole non è che il ricordo di uno stupendo passato.

Meno preghiere e più silenzio: è quello che ci chiedono i morti. Ceri, ceri e ancora ceri; così tanti ceri da oscurare l’aldilà. Tanto silenzio da intimorire gli animali notturni, da far presagire ai corvi un ritorno alla vita. Questa è la nostra rivoluzione: una battaglia senza clamori e un ricordo senza rimpianti. La vostra vita è morte, la nostra morte è vita.

Crepita una pira innalzata sugli scudi e sulle ossa. Nitriti di cavalli spezzano le tenebre sferzando di brividi le schiene temprate dall’acciaio. Insegne illuminate a metà dalle fiaccole, gonfiate dal vento, indicano ai morti la via da seguire; ai vivi, l’ultima redenzione. Le lame scintillano in tributo al valore e al sacrificio degli Avi.

Pesanti elmi, calati sul viso, mostrano all’uomo la visuale della battaglia e lo fanno sentire a casa. Un’ultima arringa, le spade contro gli scudi, le urla allineate e la marcia cadenzata. Siamo in prima linea, per raggiungere i morti di Alesia.

lunedì 13 febbraio 2012

Uccidi il morto che è in te

Le ragazze sono come l'arredamento di casa: per quanto possa valere un mobile, quando diventerà troppo ingombrante o stonerà con il colore della moquette, lo potrai sempre cambiare con un altro.
Al contrario, non so quante versioni della tua Coscienza e del tuo Onore circolino sul mercato.
Non dare peso alle cose superflue è grande sintomo di maturità.

L’introduzione al mio testamento sembra suonare bene. In realtà avrei voluto piazzarci una citazione di Leonida o Decio Mure, ma poi vai a dirglielo che non sei morto in battaglia perché di guerre non ne fanno più. Come perché? Hai mai visto guerre tra morti? Non dico tra poveri, fratelli o concittadini, ma tra morti.

Non li sto scomodando, sia chiaro. Sono spirato anch’io se stai leggendo il mio testamento. E premetto che non ho niente contro i diversamente vivi e non sono neppure necrofobo. Ma voi siete la palinodia di Michael Jackson e vi tinteggiate per sembrare meno freddi. Lo capirebbe anche un bambino che non fate guerre solo perché la cosa più viva che si può trovare in uno Stato democratico è il parlamento. Prendetene atto: siete morti, come me, e come me insepolti. Ma a differenza mia vagate ancora, testardi, su questo pianeta.

Vi serve un post-it per ricordarvi che qui siete sgraditi? Non sentite le voci dei vostri morti che vi deridono? Che fanno le barricate per non avervi vicini di banco nell’Aula dei Defunti? Fuggite come profughi dalle piantagioni intensive di ananas e non avete pensato a inventarvi un’Europa cui chiedere asilo. Anche perché in Europa sono tutti morti, e l’unica igiene del mondo è da parecchio tempo in cassa integrazione.

Lascio il testamento in bianco, perché so che sul mio cadavere banchetteranno i corvi (vivi) e le mie vesti se le spartiranno i coyote. Tutto ciò che non sia commestibile per un branco di iene l’ho già bruciato: non lascio niente alla Caritas dei deceduti. Ci tenevo solo a concludere con una frase ad effetto, magari un’invettiva contro un personaggio famoso. Stalin? Schettino? Nabucodonosor? Ogni volta scadevo nella banalità. Poi, finalmente, l’illuminazione. Dopo aver tentato con esiti fallimentari un epitaffio e un panegirico della Guerra, ho trovato un degno bersaglio. Buona lettura, corvi!

Occhio per occhio: è destino che il mondo diventi cieco.
Ci fanno la morale del perdono perché ci vogliono accecare loro, per poi deriderci dall’alto dei loro monocoli.
Ci vogliono ciechi e ci avranno morti.
Gandhi capra, servo del sistema.

martedì 31 gennaio 2012

Il vento, il freddo e una legione di angeli morti



testo inglese

L'acqua riversa le sue braccia attorno alla pietra
La decadenza gocciola dal vuoto inquieto dove si forma il ghiaccio
Dove la vita finisce

La pietra inghiottita dall'alluvione porporea
La marea rossa contorta al di là della ferita d’ebano
Offro il mio sacrificio di addio in questo fiume di memoria...
Un'onda per porre fine a tutti i tempi

Uccelli rossi sfuggono dalle mie ferite e ritornano come neve che cade

Per spazzare il paesaggio; una tormenta di neve, ali senza corpi
La neve, la nevicata amara

Desideri morire tra le sue braccia pallide, cristalline
Per diventare un inno al silenzio

Nell'anima di una montagna di uccelli, caduti
La pallida cascata di piume senza spirito

La neve è caduta e ha esteso questa montagna bianca
Su cui morirai e svanirai nel silenzio





testo inglese

Si trova una bellezza dietro alle porte di legno proibite
Una bellezza così rara e pura, che farebbe sanguinare
E bruciare gli occhi umani...


...Si è uccisa in autunno...

Io sono il devastatore, porto la bella morte all'alba
Con il vento, il freddo e una legione di angeli morti...

...Mi sono ucciso in primavera...

Un ramo tetro mi aveva appeso in alto
Ho affondato i fuochi del Sole
Qui, regna la notte

Mi oppongo alla luce
Raccolgo le tempeste
Con una spada che impugno con odio
Ho abbattuto il sole con arco e fuoco
Vento per l'inverno morti

Io sono il devastatore... l'epilogo
Io... muoio...
Ho maledetto gli inverni morti...

domenica 29 gennaio 2012

Quello che le torce non dicono


Una dose di depressione con l’IVA del 23%. Bella merda. Per colpa della guerra all’Isola del Giglio mi tocca pagare le accise anche per piangere in cucina. Tempi che corri, uomo che trovi! Quello di oggi si fa rappresentare dal Dimeglio e dagli ormoni in scatola, perché la coda per il Discobolo e il martello di Thor erano troppo lunghe. Il terrestre medio è talmente brutto che sembra un capolavoro d’arte moderna.

Hai presente la scena dei Griffin in cui Peter, Brian, Chris e Stewie vomitano a turno per un minuto? Ecco, quella è l’effige del nostro uomo. Ma arriva un momento nel quale anche il Fantozzi della situazione si stanca di vomitare sciroppo di ipecac su un cane parlante negli spezzoni più beceri di Youtube. E si prende la sua rivincita. Solo che sessanta milioni di tarli muniti di striscioni non fanno nemmeno mezzo Fantozzi incazzato come una bestia.

Mando giù gli ultimi pezzetti di cera e mi infilo lo stoppino nella carotide. È sempre stato il mio sogno fare la torcia umana.

Cosa vuoi fare da grande Pierino?
Il calciatore.
E tu, Pierino?
Il vip, maestra.
Il Pierino là in fondo, con la mano alzata?
Il cassiere al Burger King.
Epaminonda?
La torcia umana.

Non ho mai capito perché tutti quei bambini stupidi si chiamassero Pierino, come non so spiegarmi come possano dozzine di camionisti prussiani eludere la frontiera polacca per smerciare carne di Pierino nella Terra di Mezzo. Che poi Bigazzi è finito nei guai per un fottuto gatto: se si scoprisse cosa mangiano i polacchi, oggi la storia la scriverebbero i vinti.

L’accendino, in bilico sull
orlo del tavolo, è uno di quelli che ti danno in omaggio con il mutuo della casa. L’impiegato della filiale, con il solito sorrisino stronzo, fa sempre la battuta delle bombole a gas. E lo sa lei, invece, che mescolando parti uguali di benzina e succo d'arancia congelato si può ottenere il Napalm? Allora, non rideva più, il coglionazzo?

Sfoglio le pagine del Bushido cercando il capitolo sui rettiliani, ma forse sto alludendo al profeta Matteo Montesi. Provo e riprovo a replicare le sue vocine, solo per sentire che effetto fa essere perseguitati da una vocina più grossa che si fa chiamare Dio.

Matteo me devi fà un favore… disciamo… particolare. Vedi, la sbocca del fiume Musò, ecco, quella è piena de frogi... ma nello stesso tempo nun me va de ripulilla. Buccace te dai, poi sce carighi il viduo su iutubbe cuscì lo condivido sulla mia pagina. Grazie mattè, certo, lode e gloria nel più alto dei cieli anche a te. Ciao, ciao... Come? No, nun lo so cus’è un topettignao. Scusa ma ho poghi quattrì, stamme bè ciao.

Basta divagare: se un uomo non è disposto a dare fuoco alla sua laringe, o le sue vocine non valgono nulla o non vale niente lui. Di sottofondo rumoreggia un canto tribale azteco, di quelli che mettevano a palla sullo stereo prima di mangiarsi il capotribù nemico. In umido, come Bigazzi.

Una firma qui, un autografo qui… secondo le regole previste dalla legge… lascia ogni suo bene all'erede al trono del Principato del Disagio. Molto bene, un timbro ed è a posto. Gli organi li vuole donare per la ricerca? Come no. Ha da accendere?

Fonte di ispirazione: svartjugend.com

sabato 7 gennaio 2012

Manifesto della Pazzia



Crediamo nella pazzia che si fa azione.
Siamo quei pazzi di professione che nascondono la propria ragione nella fondina. Siamo ferrei nel nostro mestiere, né ragionevoli né moderati. Le nostre tasche potrebbero essere piene, ma sono libere da ogni costrizione materiale, poiché mai abbiamo osato profanarle.

Non siamo affetti da crisi di identità: ne abbiamo così tante da doverle alternare.
Ieri saltellavo con una tromba simulando la breccia di Porta Pia nel mio garage, oggi piango sulla foce di un fiume lamentando di non trovare più quel sasso colorato che facevo saltare sull’acqua. Nulla di ciò che apparteneva al giorno precedente ha senso in quello successivo, poiché in mezzo c’è una luna e c’è un cielo stellato, che già costituisce un’era a sé. Parlo in armeno per ore con un imperatore kazaco, prima di capire che sto soffiando in una bottiglia di aceto per aspirarne gli aromi. In fondo, chi siamo noi?

Siamo il pendolo tra il nichilismo e il Superuomo.
Passiamo dal desiderio ardente di elevarci sopra noi stessi e sopra il mondo, a quello di volerci restare sotto per sempre. Dall’aquila al verme, il nostro animale totem può saltellare beatamente da un estremo all'altro scivolando sulle le vie di mezzo.

Teniamo monologhi con gli altri, dialoghi su noi stessi e discorsi con gli animali.
Ci teniamo alla cura delle relazioni con il nostro io: è sufficiente qualche telefonata alla coscienza prima di andare a dormire e un po’ di pubbliche relazioni nel fine settimana con l’autostima. Il miglior interlocutore è colui che non si affanna a trovare un difetto di pronuncia ad un’orazione il cui vocabolo meno onomatopeico è “clap clap”. Come destinatari, agli uomini preferiamo gli animali, che, nemmeno tanto per assurdo, capiranno meglio di altri il senso di questo manifesto.

La nostra religione è Romanticismo; la nostra democrazia è Reazione.
Sul nostro altare soppesiamo i sentimenti, per redigere attentamente l’andamento in borsa delle emozioni e delle sensazioni. Si badi che Romanticismo non è nulla di poetico né sdolcinato: un corvo intento a recidere chirurgicamente l’occhio di un cadavere sul ciglio della strada è per noi un quadretto romantico. Quello che intendiamo con Reazione è invece l’asse politica del nostro essere e divenire: il rifiuto di ogni giogo che non sia spontaneamente addossato; il biasimo nei confronti dell’attuale, della moltitudine e del perbenismo; la consapevolezza che tutto scorre: all’infuori, naturalmente, della mediocrità umana.

Vieni nostra trinità: misantropia, disprezzo, isolamento.
Uno e trino è meglio di un gruppo di tre, perché troppe presenze implicano un eccesso di compagnia. Il nostro manifesto si prefigge di riunire ogni pazzo in una comunità platonica. Nessuna congregazione fisica, nessuna azione coordinata potrebbe esistere tra pazzi, perché frequenze diverse esigono canali diversi. E perché forse noi, una frequenza, nemmeno l’abbiamo.
« La pazzia è ribrezzo, veneralo.
La pazzia è una disgrazia, accoglila.

La pazzia è fame, cucinala.
La pazzia è un incubo, realizzalo.
La pazzia è un puzzle, confondilo.
La pazzia è un sorteggio, pilotalo.
La pazzia è un sole, contemplalo.
La pazzia è un bonsai, coltivalo.
La pazzia è una debito, screditalo.
La pazzia è orrore, vomitalo.
La pazzia è un mistero, difendilo.
La pazzia è giuramento, onoralo.
La pazzia è tristezza, piangila.
La pazzia è una cadenza, marciala.
La pazzia è una guerra, conducila.
La pazzia è un ardimento, osalo.
La pazzia è morte, seppelliscila.
La pazzia è pazzia, saziala. »


martedì 20 dicembre 2011

Solstizio


Il solstizio d’inverno è, prima di tutto, un evento astronomico. È il momento dell’anno in cui, nell’emisfero boreale, il Sole raggiunge il suo anti-apice: è la notta più lunga dell’anno.

Cosa può e deve significare per noi ‘celebrare il Solstizio’?

Non solo reiterare la nostra gratitudine verso la rinascita solare; non solo partecipare a una vittoria simbolica sulle tenebre. Il quotidiano deve lasciare posto alla circolarità dell’eterno: il giorno feriale alla stagione, la settimana lavorativa all’anno solare, la frenesia dell’orologio all’innata regolarità delle fasi lunari. È fondamentale a questo scopo trovarsi in un luogo appartato e inusuale, che accentui tanto l’eccezionalità dell’avvenimento quanto il raccoglimento necessario all’elevazione interiore. Per poche ore l’uomo civilizzato ha il privilegio di tornare a sentirsi animale spirituale nella sua dimora naturale.

Bisogna altresì precisare che non si tratta di un culto religioso. Quella che in latino viene chiamata religio è ciò che più si avvicina al termine superstizione, nel senso più anti-razionale del termine. I riti religiosi, fuori dal loro contesto tradizionale, perdono il loro significato originario; così come libare offerte a Cerere aveva un reale significato nell’età romana precristiana, oggi sarebbe a ragione etichettato come folklore, tra il patetico e il sacrilego. Pertanto noi, europei della tarda età contemporanea, dobbiamo rassegnarci al fatto di non avere una religione, e quindi di non poterla pienamente esercitare nella sua funzione rituale.

Il livello che ci avvicina al vero senso della celebrazione è invece quello metafisico: nulla come questo aggettivo fonde alla perfezione la dimensione materiale con quella spirituale. Il fuoco acceso sulla Terra è il tramite tra noi e il Sole, la veglia notturna è l'offerta spontanea della nostra vita alla perfezione dell’universo. Attendere il ritorno del Sole vigilando è l’iter per entrare in contatto con il divino.

Per nulla in contraddizione con l’anti-religiosità del rito, l’elemento divino si svela nella circolarità naturale degli elementi. La terra, il fuoco, la luna, il sole, le stelle: vita e morte, declino e rinascita sono i fenomeni che ci manifestano la divinità nel reale. Solamente quando percepiremo questa fusione con la natura, nella quale si riscopre la divinità come la più pura forma di panteismo, il cui apice è l’empatia solare, solo allora si potrà dire riuscito il rituale del Solstizio.


Di seguito, della musica che aiuta ad avvicinare le parole al concetto.

domenica 11 dicembre 2011

Elogio della povertà

Temiate la superficialità, non la povertà.
Con questo monito mi inoltrai nella selva della sofferenza per uscirne diverso. Un altro, addirittura.
Al contrario di quello che la mentalità borghese può indurci a pensare, la povertà è un pregio: o meglio, una fonte di virtù. Perché è solo nella mancanza che l’uomo può tornare a riscoprire le proprie doti, a vivere secondo natura e in armonia con sé stesso.
L’abbondanza di mezzi e piaceri rende deboli e sviliti. Tutti i popoli che sono cresciuti tra l’oro e lo sfarzo, ci sono anche morti. L’esempio dei monasteri germogliati nel Medioevo dimostra invece l’integrità del rigore intriso di frugalità e povertà. Quale migliore prova di rettitudine della scelta di una privazione spontanea!
Se oggi la materia effimera ha vinto sullo spirito, se il corpo soccombe sotto la vacua apparenza e l’umanità è schiava del denaro e drogata di progresso, lo dobbiamo al trionfo della ricchezza. Non solo l’uomo moderno vuole essere ricco: egli desidera essere più ricco. Più degli altri, più di prima. Più ha e meno dà. È sensato allora constatare che ogni altra logica malata di quest’epoca sia erede legittima della ricchezza.
Per questo in quella selva ho imparato a vivere. Imparare a vivere è un clamoroso ossimoro, mi direte: ogni uomo vive dal primo istante in cui è concepito fino alla morte. Vi siete mai soffermati nel bel mezzo di un incrocio, ad osservare gli umani zampettare da un negozio all’altro come formichine denaturate? E osate ancora definirli vivi? Carichi di borse, vestiti ad arbitrio delle pubblicità, soggiogati dalle micro tecnologie; privi di personalità e meccanici come zombie. La mortificazione della vita.
Trovai nella coscienza del sacrificio una cura al germe erosivo del lusso. Solo le notti sotto le stelle e i giorni trascorsi a contemplare il sole portarono robustezza alle mie ossa e ossigeno alla mia mente. Solo immergersi nell’acqua dopo un addestramento snervante ci ridona una sensazione di vita. Un tronco cavo diviene giaciglio e il verso del gufo piacevole compagnia. Nel profumo di una viola e nel gusto di una fragola di bosco sono racchiusi i misteri del mondo.
Questi pensieri fluttuano accarezzati dalla brezza come ninfee sullo specchio di un lago. L’estasi della staticità esterna rivela tuttavia la profondità feconda che le ha generate: acque incontaminate da cui le zanzare della copiosità stanno deliberatamente alla larga. Queste sguazzano lontane: nelle pozzanghere, nelle paludi e in tutto ciò che può offrire solamente la ricca, ma corrotta, superficie di sé stesso.
"Un letto da poco mi scalda meglio di uno ricco: perché io sono geloso della mia povertà." (F. Nietzsche)

giovedì 10 novembre 2011

La nostra via è questa

Con questa breve nota mi rivolgo a chi ancora, oggi, intende la vita come battaglia. È imprescindibile per la comprensione del discorso non avere una visione del mondo subordinata a quella moderna, in tutte le sue accezioni di libertà, pace e tolleranza. Per tutti gli altri è richiesta qualche oncia di flessibilità mentale.
Partiamo da un esempio chiarificante, per giungere al concetto universale in maniera induttiva: immaginiamo, provocatoriamente, una situazione moderna per contestualizzare la scena.
Un’azienda petrolifera, per cause accidentali, si ritrova il pozzo di estrazione completamente divorato dalle fiamme. La prima reazione che muoverebbe un “profano” sarebbe quella di versarvi sopra dell’acqua, agendo secondo un metodo standard di ragionare. Coloro che lavorano in quel campo sanno invece perfettamente come, in certi casi, questo comportamento non farebbe altro che peggiorare la situazione: l’incendio non si spegnerebbe per nulla, bensì trarrebbe giovamento dall’ossigeno, presente per un terzo nella componente dell’acqua. Esistono allora due soli modi per stroncare le fiamme: attenderne la fine naturale - ma potrebbero volerci degli anni, con le conseguenti perdite - o provocare un’esplosione artificiale.
Allo stesso modo, anche noi abbiamo due modi di comportarci. Qualcuno, miope verso la corsa esponenziale della modernità verso il collasso, sordo di fronte ai richiami di un mondo depredato di ogni specificità e bellezza, e anche un po’ ottuso, si ostina a mescolare l’acqua al petrolio grezzo. Coloro che cercano goffamente di salvare questo mondo non solo ne prolungano l’agonia, ma ostacolano anche ogni tentativo di costruirne uno migliore: chi non lotta, è complice della sconfitta.
In questo gregge di affaccendati nella cura di un malato terminale, c’è ancora chi mette da parte un po’ del proprio esplosivo in attesa della grande detonazione. Essi, tacciati come male assoluto dalle pecore di cui sopra, non hanno problemi a indicare la loro via come la più schietta e la più magnifica delle vie percorribili. Un fuoco comune si placherebbe con alcune semplici secchiate d’acqua, ma in pochi hanno capito che siamo precipitati dentro a un pozzo di petrolio. Il declino della civiltà moderna è più che alle porte: perché aspettarlo marcendo? Perché forzare oltre ogni ragione un cuore freddo che si dimena per inerzia, senza più un motivo per battere?
Il mondo non si cambia con le coccole o con la carità! Deponete la vostra pietas nei libri dei classici; sotterrate l’amore per il prossimo nel dimenticatoio. Se esiste un momento giusto per lucidare le armi, non può che essere questo. Mi rivolgo proprio a voi, che in questo momento non dovreste nemmeno ascoltarmi; che attendete il tracollo finale anestetizzati dai fumi della carità.
Certe volte mutilare è una scelta drastica, ma imprescindibile. Risulta comprensibile, per chiunque abbia un senso statico della vita, l’attaccamento al proprio pacifico vivere quotidiano: ma quando questo necessita di essere distrutto, per il bene di tutti, non si esiti a farlo. Dal canto nostro, noi non possiamo fare altrimenti: la nostra via è questa.

martedì 20 settembre 2011

L’ultimo respiro

Il mondo, o almeno quello che conosciamo, è agli sgoccioli. Basta aprire un quotidiano qualsiasi per rendersene conto. Le parole in cui si inciampa più di frequente sono: crisi, allarme, rincaro, protesta, caos, attentato, mafia, degrado, omicidio, gambizzato, tagli, declassato… E non occorre andare oltre. Al di là dell’allarmismo da telegiornale e della predilezione dei giornalisti per la cronaca giallo-nera, il periodo che stiamo vivendo è una vera catastrofe su tutti i fronti.
I piccoli comuni, le piccole associazioni, i piccoli commercianti: insomma, i pesci piccoli stanno finendo l’ossigeno e stramazzano su un fondo liquamoso sperando in un miracolo dal cielo. Non se la passano meglio i governi, soffocati da una finanza internazionale che crea voragini, compra, riduce, plasma e distrugge intere economie a proprio piacimento e interesse. Siamo condannati a subire passivamente il dominio di forze che non possiamo né controllare né conoscere: e a poco serve il teatrino degli scioperi e delle proteste contro i sicari del sistema, quando sul nostro collo pende una corda di cui non conosciamo neppure il mandante. A chi indirizzeremo la nostra domanda di grazia? Nessuno ci ascolta.
L’ambiente si sta deteriorando minuto per minuto; inquinamento e devastazione del territorio sono solo una piccola conseguenza di ciò che vuol dire una popolazione progredita di sei miliardi di esseri antropomorfi. Sei miliardi: una cifra da capogiro, che basterebbe da sola a dimostrare l’impossibilità del pianeta Terra a rimanere in piedi, una volta che anche il secondo e il terzo mondo raggiungeranno gli standard consumisti del primo. Ma anche qui, nessuno sembra farci caso.
La società poi, vista in un contesto più circoscritto, è una vera e propria pattumiera umana. Le generazioni, con il passare degli anni, divengono sempre più inermi e rassegnate: passano da una tecnologia all’altra in pochi mesi e non sentono più il bisogno di avere un’anima o un motivo per vivere. Ammazzano il tempo (la vita) nelle discoteche, sulle provinciali puntellate da transgender, nelle sporche vie di periferia cosparse di siringhe e sigarette. La vita è ormai nell’aperitivo del sabato pomeriggio, nella sbronza del venerdì sera. Niente di più. Nessun sentimento che vada oltre il mero istinto sessuale, nessun interessamento alla cultura, alla politica o alla conoscenza di sé. E’ la gioventù del nulla. Annichilimento passivo, tv, creme depilatorie, videogiochi, divertimento… il nulla. Ogni differenza si acquatta verso l’appiattimento più totale; ogni guizzo di autostima, orgoglio, ribellione è soffocato lentamente dal pallido grigiore delle masse, dalle malinconiche luci rosse di un night club, dalle ceneri nere sbuffate con malavoglia fuori da fiacchi polmoni tumorati.
Tra l’inconsapevolezza più totale, nel menefreghismo diffuso e l’indifferenza standardizzata, stiamo annaspando ingozzandoci delle ultime sacche di ossigeno rimaste. Nessuna disperazione, niente urla e gemiti o clima apocalittico da fine del mondo: andiamo verso la morte quasi per caso, come un agnellino sprofonda d’un tratto tra le lame di un mattatoio. Siamo la generazione del nulla e vi ci sprofondiamo senza saperne nulla.
Però mi piace pensare che si possa finire con dignità anche combattendo nel fango. Mi hanno sempre affascinato le storie dei grandi eroi che trapassavano con la spada in mano, consapevoli, felici. Ho sempre guardato con stupore i Kamikaze giapponesi del Novecento, frecce infiammate d’ardore anelanti l’oltreuomo. Penso che una fine del genere spetterebbe di diritto a tutti noi: non ci è stato concesso di stabilire come nascere, ma possiamo decidere come morire! Non potremo salvare il mondo, ma possiamo salvare noi stessi.
Una scena che colpisce spesso i visitatori della città di Pompei sono le sagome pietrificate dei soldati posti alla difesa della città. Fermi, immobili dinnanzi all’avvicinarsi di una nube densa di cenere e lapilli, quegli uomini hanno atteso la morte con i piedi piantati nel terreno. Lo sguardo fisso, duro, inflessibile. Anche noi, come quei guerrieri, potremo dimostrare che, tra le eruzioni di un futuro ormai prossimo, saremo in grado di difendere il nostro nome, noi stessi e il nostro onore.
Vivere per morire o morire per vivere: noi la scelta l’abbiamo fatta da tempo.
"Si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae." Anche se il mondo attorno a lui cadesse a pezzi, le rovine lo colpirebbero impavido.
Orazio

lunedì 8 agosto 2011

Squarci di affresco

Al culmine della salita, il paesaggio diviene allo stesso tempo maestoso e reverenziale.
Avvolto tra le nuvole basse e fitte, sferzato dal gelido vento, si staglia un colle di un verde acceso e colmo di vita, punteggiato irregolarmente da grandi massi bianchi, quasi calcarei. Due falchi, immobili nel vuoto, tagliano l’aria ad ali spiegate e vigilano su quel monumento della natura.
Tutt’intorno la vista è annebbiata dal vapore, ma rimane spazio per scorgere, ai lati, le due vallate che si adagiano dolcemente sul pendio. Sullo sfondo, appena sopra un sentierino di ciottoli erto e scosceso, una croce in lontananza sembra svelarsi surrealmente tra la foschia. Il maestoso scenario rimane statico, come un affresco. Si protrae per pochi attimi, intensissimi, che prego si trasformino in lunghi giorni.
Poco dopo, svanite le nuvole, riemerge il sole e i falchi planano, attratti da qualcosa più a valle. Ma io ho visto. E non solo, ma continuo a vedere, dentro di me, quello squarcio, che mi chiedo ancora adesso se sia realmente esistito.
Il panorama descritto è il paesaggio di una località valtrumplina: certo del fatto che nessuna pellicola avrebbe mai potuto rendere uno spettacolo simile, ho preferito non mostrarne la fotografia, confidando piuttosto nella scrittura, quel potentissimo mezzo capace di mettere in moto nel lettore le facoltà dell'immaginazione.
Di seguito un sottofondo degno di quegli idilliaci momenti.

martedì 31 maggio 2011

Sogno una gioventù

Sono tormentato dall'idea di questa gioventù. È, quest’ultimo, il frutto più ricco che ci viene concesso, pur nella caducità del corpo umano. Sogno una gioventù forte, ardita, dominatrice di sé, disciplinata, dedita alla propria salute fisica non meno che alla preparazione mentale, capace di sostenere sin dall'inizio le prove più insidiose della vita. Il coraggio e l’audacia sono caratteristiche imprescindibili in un giovane: sprecarle sarebbe un peccato, soffocarle abominio.
Quando i due aspetti più pericolosi -quelli dello studio e del divertimento- prendono il completo monopolio della vita di un giovane, questi crescendo non diventerà altro che un’utile macchinetta sociale: lavorerà incessantemente nel completo abbandono della propria interiorità, del contatto con il mondo, della riflessione interiore, del dinamismo fisico e mentale; salvo poi sfogare i propri rimpianti nei recinti del fine settimana, dove ruggire è consentito anche ai montoni.
Soffro nel vedere la mia gioventù inerme, china sotto il peso dell’ozio, degli obblighi sociali e dello sballo da routine. Tentare poi di plasmare l’animo già formato di un adulto è una lotta contro i mulini a vento; sarebbe come voler modellare a piacimento un coccio di vetro: questo o si spezza o rimane un coccio.
Ogni epoca storica che abbia assistito a una rivoluzione si è preoccupata di scommettere su quel settore che non ha mai smesso di costituire una risorsa naturale: ogni cambiamento radicale nella società e nell’uomo dovrà quindi, anche in futuro, passare dal giovane. Imprescindibile sarà il suo apporto, fondamentale il nostro esempio.
Tutta l’umanità necessita della cura minuziosa e appassionata del suo fiore più prezioso. Nessuno si astenga dal portare avanti i valori di quella gioventù sana, ultima speranza tra le macerie di un mondo corroso, dovesse anche, nel frattempo, diventare vecchio.

martedì 5 aprile 2011

Una scelta definitiva

Per spostarsi da un punto all’altro del globo, da che mondo è mondo, serve un mezzo di trasporto. Basta un clic su internet, una carta di credito e voliamo nei posti più remoti. Anche le automobili sono comode e soprattutto fanno girare i soldi: carburante, assicurazioni, bolli, revisioni... 24 ore su 24, 365 giorni l’anno: se avete bisogno di un distributore lo troverete aperto sempre. Le autostrade sono calde notte e dì – tutti i giorni – solcate dalle gomme, cerchi in lega, cavalli e cilindrate.
Caschi integrali, vitamine, aspirine, estintori, mascherine contro lo smog: c’è tutto quello che serve per mantenere una parvenza di salute. Cosa mi lamento, non si potrebbe fare di meglio! Abbiamo i conservanti, la tv satellitare, i-phon, i-pad, i-touch. Con soli 8 euro possiamo goderci l’ultimo film hollywoodiano in 3D. Non ci manca proprio niente. Materassi di gomma, case in cartongesso, bicchieri di plastica, vestiti in poliestere, sponsor ufficiali, macchine fotografiche usa e getta, uno schermo e una batteria per ogni utensile.
Stiamo vivendo l’apoteosi dell’elettronica, il culmine monumentale dell’informatica, l’apice del dominio umano sulla Terra. E’ questo l’uomo che mi accingo a distruggere. Egli ha abusato di ciò che un Dio ingenuamente generoso gli ha donato. Non aveva forse le idee chiare il giovane Victor Frankenstein dopo aver creato un vero e proprio mostro? Era così in buona fede inizialmente, tanto dedito al suo successo da dimenticarsi delle conseguenze di quella assurdità. E il nostro Dio non è altro che un Frankenstein in grande: dobbiamo accettare l’idea di essere figli di un eccesso di zelo.
Accantonati e rinnegati da nostro Padre, abbiamo fatto il suo stesso sbaglio con il mondo che ci ha affidato. Questo pianeta doveva essere un figlio, una madre e un fratello. Da ingrati lo abbiamo riempito di buchi, soffocato di cemento e radiazioni; ne abbiamo insozzato le viscere e l’atmosfera. Nessuna scusa potrà mai cancellare tali ingiurie: presto esso si rivolterà contro di noi, inconsapevole del fatto che l’uomo nasce già insieme al virus della propria morte. Non gli lasceremo nemmeno la soddisfazione di scrivere con le proprie mani la parola “fine”.
Quello contro cui mi scaglio, quello che intendo polverizzare non è solo il mondo moderno. È l’uomo. L’uomo che, dopo millenni di esistenza cauta e prosperosa, esagerando e degenerando giunge agonizzante a scongiurare di essere annientato. L’uomo che, sputando addosso a Dio e calpestando la sua terra, ha decretato la sua condanna. Dio non è morto, uomini, è furibondo!
Forte di un fuoco purificatore, delibero e agisco in Suo nome senza incertezza o rimorso, tranne quello di non poter tramandare le motivazioni di un gesto così eclatante. Ma in fondo, a che servono le parole se tengo un comizio dinnanzi a una platea di sordi? Per quale uomo varrebbe la pena di sprecare fiato se questi è prossimo al martirio? Mi piacerebbe, ora, disquisire con un mio antenato: Seneca, Platone, Cicerone. Mi loderebbero? Mi biasimerebbero? Non ne ho idea, desidero solo ardere insieme a questo fuoco. Che tutto torni come prima. Addio.

“Che cos'è un contemporaneo? Uno che ci piacerebbe ammazzare, senza sapere bene come.” (Emil Cioran)

martedì 15 marzo 2011

Dialogo tra un pazzo e un venditore di fagioli

Maledetto renitente! Quanti ettari di filo spinato hai sorvolato per scioglierti su quella poltrona?
Su per giù una settantina.
Sfiduciato! Disonorevole! Speravo che il mondo girasse in senso orario per recuperare un po’ del mio tempo… e invece guarda come sono ridotto. Sono mesi che mangio solo fagioli, mi sento male. Passami un bicchiere.
Sei nel posto giusto.
Ti racconterei di quella capra che viveva sulle più alte vette dell’Himalaya, ma sono troppo stanco. Il mondo è già stanco, è ancora stanco. Non pesano tanto i secoli quanto le anime dei dannati: non sanno più dove metterle… faranno un altro decreto.
Governo ladro...
Piove! Piovono dadi, simbolo d’infingarda passione. Sciami di dadi muggiscono e si dilaniano contro palizzate di baionette. Ah! Ho abbandonato la mia ruota per un dado, bel mestiere ho combinato.
Meglio un dado oggi o una ruota domani?
La ruota… la rivoglio! Sono vecchio e ti confesso che è meglio vivere aggrappato alla speranza di una ruota che gettato nell’angolo più cupo di un dado.
Dà-do. Nella parola c’è un chiaro riferimento.
Dare… siamo quel che diamo o quel che riceviamo? Nessuno ed entrambi, caro signore dei miei fagioli. Siamo un’entità che si costituisce con l’andare del tempo, un castello i cui granelli aumentano fino a che, quando sono ormai troppi, crollano e si riversano sopra qualchedun altro.
Questo ti turba?
Certamente non questo. Mi duole non poter scegliere, o per lo meno sapere, a chi tramanderò la mia sabbia. L’ho sudata sai, l’ho dovuta difendere dai lupi! Fai presto tu a vendere fagioli da un baldacchino. Vieni a fare la guerra, guarda in faccia le ossa che stroncano l’anima! Raccogli una testa dalla polvere, prova cosa vuol dire la sete di casa…
Vorrei saperlo.
Te lo auguro. A vedere solo questa vita verrebbe da dire che siamo più noiosi delle zebre. Con la differenza che noi abbiamo inventato i cannoni e le navi e le ferrovie! Una nave non è fatta per rimanere nel suo porto.
Tuttavia il molo è un posto sicuro.
Sicuramente l’ultimo luogo nel quale vorrei morire, il primo in cui avrei voluto nascere. A sopravvivere a un naufragio se ne esce con un paio di occhi nuovi: questo non è un molo, è un cimitero! Un loculo, per Giove! Portatemi via di qui… non seppellitemi vivo nella melma! Voglio morire per davvero, io.
Tu sei pazzo…
Appunto. Ma tu sei un venditore di fagioli. Io vedo cose che non puoi neanche immaginare, e tu? Tu vedi solo un pazzo. Un pazzo col bastone, la dentiera, una foto sbiadita nel portafogli… Questa foto l’ho scattata quando avevo ancora gli occhi vecchi, guarda.
E’ un albero?
Un albero?! Per tutti i bracconieri di anime, questo non è solamente un albero! Osserva bene la figura che esso compone, non ti sembra umana? Che dico umana… viva! Non riesci a sentire ciò che ti sta comunicando quello che tu chiami albero? E guarda lo sfondo, il tramonto, quel lembo di nuvola… Che splendore!
Continuo a vedere un albero.
Questo ti deve mettere in guardia, figliolo. Con i tuoi occhi pieni di fuliggine non vedi che le sagome riflesse della realtà. Parti! Lascia questo pollaio, abbandona il fienile! Se resterai qui diverrai cieco e non vedrai tanti tramonti, tante aurore, tanti… alberi!
Hai ragione. Sei pazzo, ma hai ragione.
Ed è proprio per questo che dico il vero, perché sono pazzo. Pensi di essere più intelligente di un cane? Beh, lui è più sensibile di te, può percepire una gamma di odori e rumori da impressionare qualsiasi macchinario umano. Io ho imparato a sentire quegli odori, a farli miei. Ho ascoltato quei rumori e ora li distinguo come il rosso dal verde. Un pazzo non ha pregiudizi ma ascolta, fiuta, impara tutto da tutti, in silenzio. Questa è la mia forza.
Ammirevole.
Di più! Micidiale, dirompente quanto placida è la nostra anima! Corpo sereno e mente libera: quant’è bello essere pazzi! La vera sfortuna è quella di essere malvisti dalla gente. Ma ti dirò, in confidenza: meglio evitato che molestato. Era troppo soffocante camminare nella folla opaca e muta, lavorare senza sosta in mezzo a una torma immonda per arrivare, a sera, ad addentare un pezzo di dignità conteso da un gregge di stomaci senza cuore. Era troppo… così ho deciso di fare il pazzo.
Una scelta coraggiosa… e di che vivi?
Aaah! La tua ingenuità si addice a un uomo di questi tempi, all’uomo che ero anch’io. Io vivo. Vivo per, vivo in… non di. Per trent’anni ho vissuto di sopravvivenza: un po’ per pagare le tasse e un po’ perché non mi sembrava di avere altra scelta. Poi la guerra: il freddo, il sangue, i cimiteri… quante croci, quante ne sono servite per lavare quegli occhi? Quante notti di veglia passate a divorare le stelle! Ma poi l’ho vinta, la mia guerra.
Quale guerra?
Quella contro il normale, il civile uomo che ero. Contro la nuova società. Nuova per me, per lo meno. Nuova e spaventosa per i miei occhi, veri, di cristallo e non più fondi di bottiglia! Mai più voglio rimettere quegli occhi! Li ho gettati nella bufera e dati in pasto agli sciacalli. Dammi una spinta, fratello, dammi la forza per nuotare e lasciare finalmente alle mie spalle le alghe putride di questo porto. Vado, nuoto contro la corrente. Dove? Vado a riprendere la mia ruota.

"Nessuno si appaga del stato suo, eccetto qualch'insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco intervallo de la sua pazzia." Giordano Bruno
Immagine: Annibale Carracci, Mangiafagioli, 1584-1585.
Ispirazioni: Giacomo Leopardi (“Operette morali”, Zibaldone); Platone (Dialoghi).

martedì 8 marzo 2011

Dov'è il tuo Dio ora?

Uccideresti una persona? Non mi preoccupa molto la cosa in sé e nemmeno mi dispiace per lo stronzo che dovrà lasciare questa vita. Gli è andata sempre bene, è nato con la camicia, nel Paese e nell’epoca giusta: ora tocca a me. No, quello che mi rammarica veramente è dover arrivare a tanto per riportare la giustizia tra gli uomini. Dove sono finiti gli Dei? Non ci hai mai creduto in Dio mi bacchettano… Penso che se esistono più divinità, allora ci sono più possibilità che almeno una ci assecondi. Non dico benedirci o rivestirci della loro fottuta aura divina ma almeno ascoltarci, farci capire che si interessano di noi! Se esistesse Dio onnipotente non gliene fregherebbe nulla del vostro lavoro, delle automobili, la casa, la famiglia, la fidanzata, la salute, il successo, il porcospino, il caffelatte e la tazza del cesso… Vi maledirebbe uno a uno come sto facendo io adesso e si siederebbe comodamente a gustarsi il teatrino tragicomico della vostra vita. Non passa giorno che non pensi a quanto sia inutile il vostro Dio, che ora è Cristo ora è il Milan, e quando non è il denaro è una mignotta sul calendario. Solo oggi invece ho rivolto il mio pensiero verso qualcosa di diverso: pensate se avvenisse un Big Bang all’inverso, un’implosione dell’universo, che verrebbe così a scomparire. Quale sarebbe il vostro ultimo pensiero? Ho lasciato acceso il forno, avrò chiuso il garage, chi si occuperà della piccola Kety, mancano solo due giorni a Natale, Don Matteo riuscirà a scovare l’assassino, e se poi mi dice di no, cosa le regalerò a San Valentino, converrà investire sul mattone? Io penserò solo: perché così tardi? Perché così tanto tempo prima di salvarci e farla finita? Penserò: dov’è il tuo Dio ora? Hai dimenticato anche quello nell’ultimo istante della tua miserabile vita? Miserabili: così vi ha definiti un Plutoniano, un alieno che è venuto a visitare il pianeta rosa, colore della vostra carne. E’ intelligentissimo questo curioso essere, si chiama Vero e può assumere ogni forma lui desideri, persino liquida o gassosa. Riesce a comprendere i calcoli matematici più impossibili e le terminologie più improbabili in tutte le lingue esistenti. Ha imparato a memoria la Divina Commedia in due decimi di secondo. Però certe cose non le vuole capire: non le riesce a capire. Le banche, i soprusi, le guerre, le tasse, il controllo delle menti, la polizia, la censura, la droga… non c’è modo di fargli capire cosa siano. L’altra settimana ho impiegato quattro ore a spiegargli cosa sia la pubblicità, chiaramente con esito fallimentare. Ho consigliato a Vero di stare alla larga dalla Terra, perché se non riesci a capire come girano le cose qua rimani sempre sul fondo. Vi potrò sembrare un filosofo ma non sono un cazzo di filosofo: non ho la barba, ho letto pochi libri, non ho una faccia seria e nemmeno un paio di occhiali decenti o un titolo di studio da sfoggiare in pompa magna. Ma penso di aver capito qualcosa e di avere il dovere di infondere queste intuizioni. Non verità, sia mai, tutti quelli che hanno predicato la verità hanno sempre avuto un doppio fine. O facevano il doppio gioco. O giocavano sporco. Insomma, non fidatevi di chi ha in tasca la verità, seguite piuttosto chi la cerca. Pensa, oggi sul treno ho sentito qualcuno dire che volere è volare… quanto odio questo tipo di frasi scontate! Aforismi fittizi e vuoti come: se la ami seguila fino alla follia e vai fino in fondo per scoprire quali follie lei farebbe per te. Non ho mai fatto leggere queste schittate d’inchiostro al mio amico Vero, persino io me ne vergogno. Volere è volare dicevamo: penso piuttosto che poter volare e non volerlo fare sia una mancanza non scusabile. Questo mi dispiace, perché quel poco di buono che ci è concesso non lo sfruttiamo nemmeno. Smettetela di rimpinzarvi di illusioni: i sogni servono ad andare avanti, ma non sono che l’antipasto. Siate vigili e abbiate il coraggio di vedere grigio, di guardare il bicchiere non semi pieno ma completamente vuoto. Andate a riempirlo voi o morirete di sete leccando il fondo del vetro! Vi sembra poco? Sto già parlando troppo, forse finirò nei guai. Chissà perché sto parlando ad un coniglio, probabilmente è il volto più umano che possa trovare al momento nel raggio di qualche chilometro. Forse anche lui in passato era un uomo, ora è fortunato. E’ in gabbia però, ha avuto la sventura di nascere in questi tempi: lo ingrassano tutta la vita e alla fine gli tirano il collo e lo cucinano nel burro, e se non è per mangiarlo è per divertire qualche cucciolo d’uomo depresso. Insomma gli è andata male di nuovo, magari la prossima volta rinascerà su Plutone. Lascio dormire il coniglio nella sua rassegnazione, tra poche ore sorge il sole, le sveglie suonano e i cadaveri viventi si ammucchiano nei grandi centri, urbani o commerciali, pensano poco e lavorano parecchio, poi tornano nelle loro tane. Andrà avanti così finché vorranno gli Dei, loro si divertono molto a osservarci.

venerdì 11 febbraio 2011

Foibe, tra storia e ricordo

Mi vergogno delle polemiche che si sollevano ogni anno sul tema delle foibe e dell’esodo istro-veneto dalle terre “al di là dell’acqua” avvenuto nella seconda metà degli anni ’40 del secolo scorso. Sarebbe ora di smetterla, per dignità, di giocare carte politiche sulla pelle e sulle anime di migliaia di persone trucidate e centinaia di migliaia esiliate.
La storia dovrebbe offrirci la possibilità di capire il presente attraverso il passato e invece spesso, troppo spesso, soprattutto in ambito moderno-contemporaneo, diventa occasione di sfruttamento per fini poco nobili.
Analizzare la tragedia delle foibe da un punto di vista storico significa partire dalle cause scatenanti, passando attraverso le responsabilità dei carnefici e le sofferenze delle vittime, giungendo così a trarne un insegnamento che possa arricchirci culturalmente e personalmente, oltre a contribuire nella ricerca di una soluzione alla situazione che, da sessant’anni a questa parte, si è venuta a creare nella zona interessata.
Ricordare le foibe vuol dire fare informazione storica - noto con amarezza come per molti queste siano solamente un fenomeno geologico e per altri nemmeno quello - spiegare cosa sono, da chi e come sono state utilizzate e quali le cause e gli effetti storici nonché geopolitici che le hanno accompagnate. Non può risultare slegato dal discorso un quadro sulla situazione istriana e dalmata, il cui suolo è stato teatro dell’accanimento dei due fronti: da una parte il comportamento arrogante e colpevole assunto dall’Italia dagli anni ’20 in poi - con l’italianizzazione forzata nei confronti di veneti e slavi e le conseguenti persecuzioni verso i dissidenti, fino ad arrivare alla connivenza con la Jugoslavia dei politici del dopo guerra, Togliatti e De Gasperi per non fare nomi - dall’altra le efferatezze perpetrate dalle truppe jugoslave di Tito sui vinti.
Poi assistiamo allo squallido rimbalzo delle responsabilità: slavi e comunisti additano come invasori e colpevoli di atti barbarici - giustificando i propri - gli italiani e i fascisti; a loro volta questi mettono in luce solamente le colpe degli altri rivendicando le proprie pretese sulle terre adriatiche sottratte dalla “vittoria mutilata”. Tesi sostenuta da pochi è quella che vede nel colpevole l’esasperato nazionalismo di entrambe le parti in gioco. Un nazionalismo artificioso e di stampo tardo-ottocentesco che oggi non ha più ragione di esistere (la Jugoslavia si è frammentata, l’Italia non ancora) ha portato rancore e distruzione in una terra in cui da secoli popolazioni di diverse radici, dagli illiri agli austriaci passando per slavi e veneti, hanno saputo convivere serenamente.
Il divario tra le componenti etniche è scattato come una miccia incontrollabile nel momento in cui quella terra doveva essere italiana o jugoslava: ovvero, in entrambi i casi, diventare parte di qualcosa a cui non apparteneva. Semplicemente l’Istria era Istria e la Dalmazia Dalmazia, al di là di come la potessero pensare in Italia o in Jugoslavia. Da questa lezione storica risulta chiaro che l’imposizione forzata di un’identità artificiale che non tenga conto di quelle vere pre-esistenti non può portare che scompiglio se va bene ed eccidi efferati quando la situazione precipita.
Agli infoibati, agli esuli e a tutte le vittime di questa tragedia va il nostro silenzioso compianto. Per loro e per noi stessi manteniamo vivo il ricordo, nel lutto e nella consapevolezza, perché il sangue versato e i soprusi subìti non siano vani né dimenticati.